L’avvocatessa, il procuratore e l’effetto farfalla

di Thomas Pistoia

Forse voleva soltanto sapere se è vero ciò che si dice intorno ai pubblici ministeri… che siano i più forniti della virtù meno apparente…
Mmm… No, la parafrasi non giustifica.
Forse dipende tutto dal fatto che, quando era adolescente, in tv cominciavano a passare programmi come “Uomini e donne”, “Il Grande Fratello” e tutto il resto della batteria Mediaset. Non è matematico, non è scientifico, ma pare che, in qualche modo, su giovani menti più deboli e predisposte, una formazione di questo tipo sia deleteria e conduca all’equivoco che si possa vivere senza lavorare o lavorare senza essere preparate.

Per certi versi il suo era lo stesso dramma delle olgettine: era convinta che basta darla via per avere la vita facile. Perché il pigmalione, il ricco, il potente, bene o male, è un uomo come gli altri. Sì, soprattutto là sotto. E quanto stomaco ci vuole, soru mia, per andare sotto un uomo non bello, vecchio, eppure tanto utile!

Poi successe quello che succede sempre: la legge, quella stessa legge che lui avrebbe dovuto rappresentare, aveva scovato l’uomo importante, lo aveva fermato e si accingeva a punirlo. Affondando, costui aveva trascinato con sé tutti gli altri, corrotti e corruttori, olgettine e rubacuori… I complici, insomma. Già, ci sono giudici, in Italia, che hanno complici.
E tra questi, tra i corruttori, c’era lei, l’avvocatessa. La questione non era basata sul mestiere in sé: a un avvocato la giustizia deve interessare in modo marginale. Il suo compito di legale è tutelare un cliente, anche quando colpevole.
Non è raro, in una conversazione tra avvocati, udire pronunciare con soddisfazione una frase come “era colpevole, ma sono riuscito a farlo assolvere”. Non puoi biasimarli, la loro ontologia non prevede l’innocenza, bensì esclusivamente la dimostrazione di una tesi al di là di ogni ragionevole dubbio, con abilità dialettica e conoscenza del cavillo.

La questione stava piuttosto nel metodo: l’avvocatessa aveva pensato che fosse possibile utilizzare un’altra competenza, più efficace, più sicura. Una competenza che, se trovi il piemme giusto… Il piemme è un uomo, che vuoi che sia? Come si dice, “tira cchiù nu pilu…“.
Con questo sistema, bastava chiedere. Agli uomini basta saper porre bene la domanda.
Aveva così ottenuto sentenze favorevoli per i propri clienti, informazioni riservate, perfino favori per le sue amiche, che… Ovvio, non avrebbero potuto fare tanto le schizzinose… Anche loro, un pochino pochino, avrebbero dovuto darla.

Subito dopo l’intervento della legge (non della giustizia, della legge), la situazione era sembrata precipitare. Il giudice titolare dell’inchiesta aveva steso una panoramica dettagliata del “sistema”, indicando i favori del procuratore e la modalità con cui venivano ricambiati. Non aveva neanche trascurato di specificare quanto all’avvocatessa, in realtà, facesse ribrezzo quell’uomo.
Il risultato dell’indagine era sintetizzato perfettamente da quel braccialetto elettronico che avevano messo addosso alla principessa del foro, per sapere sempre dove si trovasse.
Ma la legge (la legge, non la giustizia) prevede una magia chiamata “patteggiamento”. Dicono che formalmente non sia un’ammissione di colpa, ma sanno benissimo che sostanzialmente lo è: l’imputato e il suo avvocato, posti di fronte a prove schiaccianti, concordano col giudice una pena, che, ridotta a un terzo di quella prevista, viene “sospesa” e in seguito non scontata, qualora nel corso degli anni successivi il condannato non commetta altri reati.
Insomma, l’avvocatessa patteggiò, pur continuando in pubblico a negare di aver mai fatto sesso con quel procuratore. In virtù del patteggiamento le vennero tolti gli arresti domiciliari e il braccialetto.

Cercò di riorganizzarsi: bisognava probabilmente affrontare l’ordine degli avvocati, cercare di continuare a lavorare, riabilitare la propria immagine pubblica, ricorrendo se necessario anche a… Sì, ci saran pure degli uomini in quegli altri uffici preposti a decidere del suo destino!
Ci mise un po’ a rendersi conto che, ogni mattina, quando usciva di casa, un gruppo di persone la seguiva. Cominciò una signora di mezza età della quale lei non si accorse, presa com’era dagli orari e dalle corse in studio e in tribunale. Alla signora si aggiunse, la mattina dopo, un tizio vestito da contadino. E, alla mattina successiva, uno vestito da motociclista. E via così, giorno per giorno. Una donna con un bambino in braccio, un giovane con una gamba ingessata, un extracomunitario, un tale vestito da macellaio, due cinesi, perfino una bambina.
E altri. Tanti altri ancora,
Ogni mattina la seguivano ovunque andasse. Lei saliva in studio, loro si fermavano sul marciapiede. Scendeva per andare in tribunale e loro sempre dietro, muti, con lo sguardo severo, gelido. E più passava il tempo, più la folla aumentava.

Lei passò dall’inquietudine allo spavento. Provò a rivolgersi alla polizia, ma gli agenti non trovarono alcun motivo per fermare quelle persone. Quale reato avrebbero potuto contestare loro? Che facevano il suo stesso percorso senza rivolgerle mai la parola?
Chi meglio di un’avvocatessa, che ha per giunta conosciuto pure la condizione di imputata, poteva comprendere che non c’erano proprio gli elementi per procedere?

Passarono settimane.
Lei camminava.
Loro, dietro.
Lei camminava.
Loro, dietro.
Provò a ignorarli, a deriderli, a supplicarli.
Niente.
Loro, muti e dietro.
Finché un giorno, giunta ormai al limite della sopportazione, assordata dal rumore di quei passi, schiacciata dal peso di quegli sguardi, si fermò, si voltò e cominciò a urlare, in lacrime.
BASTAAAAAAA! NON NE POSSO PIÙ! MA COSA VOLETE? COSA VOLETE DA MEEEEEEE?
Si fermarono anche loro. Per un attimo regnò il silenzio. Lei di qua, ancora stravolta. Quegli altri di là, immobili.

Poi una donna anziana, una nonna col fazzoletto legato in testa e una borsa di vimini gialla appesa al braccio, si staccò dal gruppo e le si parò di fronte.
Era piccola, sciupata, vestita di nero. Aveva gli occhi lucidi e tre denti soltanto.
L’avvocatessa si aspettava delle frasi pronunciate in dialetto, invece l’anziana le si rivolse in un italiano perfetto dall’inflessione fortemente salentina.
– Sai chi siamo noi? Siamo quelli che per un motivo o un altro, direttamente o indirettamente, sono stati danneggiati dal non aver ricevuto giustizia. Ogni sentenza che tu con… con la tua… – prese a indicare il basso ventre della donna, poi desistette e riprese – Ogni sentenza che hai fatto truccare è ricaduta su coloro che, innocenti, tu hai reso colpevoli. E su coloro che, colpevoli, tu hai reso innocenti. Sulle loro famiglie e su chiunque altro stesse loro intorno. “Effetto farfalla” si chiama. Effetto – e indicò nuovamente il pube di lei – farfalla.
L’avvocatessa percepì l’assurdità di quella situazione, la accusò come un colpo di maglio, le sconvolse la mente.
Prese a indietreggiare, prima lentamente, poi in modo più frenetico.
– N-no. No, lasciatemi stare! Andate via! Via!
Si voltò e cominciò ad allontanarsi con passo svelto.
Loro, dietro.
La seguivano e mormoravano, sempre con sguardo gelido.

Effetto farfalla
Effetto farfalla
Effetto farfalla

Nello stesso momento, dall’altra parte della città, una folla simile, forse più numerosa, attendeva sotto casa il piemme che aveva giaciuto con lei. Quando costui uscì, la moltitudine gli si mise dietro. Lui sulle prime accelerò il passo, poi, spaventato, si mise a correre.
Ma quelli non mollarono e cominciarono a correre anche loro.
Mentre lo tallonavano sempre più da vicino, mormoravano e dicevano piano, scandendo bene:

Schiacciamo il bruco
Schiacciamo il bruco
Schiacciamo il bruco

Schiacciamo
il
bruco

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