Il caporalato è mafia e va perseguito con le stesse norme che consentono alla magistratura di risalire fino ai boss in cashmere: interdittiva antimafia e/o sequestro-confisca preventiva anche per le aziende, anche della moda, che comprano da altre aziende che fanno ricorso al lavoro degli schiavi e dei caporali
di Marilù Mastrogiovanni
Da nord a Sud, dal varesotto alla capitale europea della cultura, l’identikit degli aguzzini e delle vittime di assomigliano tutti.
Negli ultimi 5 giorni tre operazioni delle forze dell’ordine e della magistratura hanno smantellato tre diverse organizzazioni criminali che trasformavano il lavoro in schiavitù. Sono stati arrestati caporali e imprenditori a Busto Arstizio, in provincia di Varese, a Latina e nel Materano.
Solo nella provincia di Latina sono stati liberati con l’operazione “Commodo” almeno 500 schiavi: secondo gli inquirenti alcuni sindacalisti e ispettori del lavoro facevano parte del sistema criminale.
Grazie alla legge 199 del 2016 che introduce per la prima volta il reato di “caporalato”, le tre diverse organizzazioni criminali sono smantellate dalla magistratura di tre diverse procure. Tre diverse organizzazioni che hanno in comune dinamiche di funzionamento, metodi intimidatori e vessatori, beneficiari finali.
Ma nella lunga “filiera” della riduzione in schiavitù, la forza che ha la legge e dunque i magistrati, per risalire fino all’origine della lunga catena di sfruttamento, si indebolisce sempre più fino a scomparire quando si arriva ai marchi commerciali e alla gdo, la grande distribuzione organizzata.
Anche di questo abbiamo parlato a Manduria sabato 19 gennaio, con Teresa Bellanova, prima firmataria della legge 199 del 2016, con Serenella Molendini, consigliera nazionale di parità supplente e Antonio La Fortuna, segretario generale Fai Cisl per Taranto e Brindisi.
E’ evidente che la lunga catena della riduzione in schiavitù delle lavoratrici e dei lavoratori è saldamente nelle mani dei grandi marchi e, ancora dopo, nelle nostre. Perché siamo noi gli acquirenti finali. Sugli acquirenti finali si può agire con campagne di sensibilizzazione e marchi di qualità che certifichino la filiera libera dal ricorso al lavoro degli schiavi. Ma bisogna sempre affidarsi al buon senso civico dei consumatori.
Non basta.
Come reprimere la domanda? La domanda del lavoro degli schiavi, intendo. Perché è ovvio che se c’è l’offerta è perché la domanda c’è ed è in crescita.
Per esempio: tra le pagine dei fascicoli d’indagine della Procura di Lecce, che per prima ha perseguito con successo i caporali di Nardò (nel Salento), troviamo tre nomi di grandi marchi commerciali di alcune tra le migliori “pummarole” made in Italy: Mutti, Cirio e La Rosina.
Ora: le tre aziende ne sono uscite “pulite”, perché hanno dimostrato, fatture alla mano, che fiscalmente era tutto a posto, avendo acquistato la materia prima dagli imprenditori salentini, che poi sono stati condannati proprio grazie alla legge sul caporalato.
Ma è evidente che chi acquista a basso costo lo fa consapevole che quella materia prima, altrove, costa di più, e sa che la prima e più importante variabile che determina il prezzo è il costo della manodopera per la raccolta.
Se il prezzo è troppo basso, deve suonare un campanello d’allarme.
Che nella testa dei grandi marchi e della gdo (la grande distribuzione organizzata) non suona mai perché non conviene. A nessuno.
Lo stesso accade per i marchi dell’altra grande eccellenza italiana insieme all’enogastronomia: la moda.
Alcuni dossier come “Abiti puliti”, “change your shoes” e “Il vero costo delle nostre scarpe”, tutti dossier in cui è confluita l’inchiesta del Tacco su “I cinesi d’Italia”, poi ripresa dal New york times, dimostrano come grandi brand, da Tod’s a Prada a Geox, a valle della catena di contoterzisti, facciano ampio ricorso al lavoro in nero o sottopagato o pagato a metà. Ricordiamo tutti il crollo della palazzina di Barletta, nel cui seminterrato c’era un laboratorio di maglieria, dove lavoravano in nero diverse donne. Morirono cinque di loro, tra cui la figlia quattordicenne dei titolari.
Uno degli elementi positivi della legge sul caporalato è l’introduzione del cosiddetto “indice di sfruttamento”, ossia la presenza di almeno un elemento tra quelli previsti dalla legge, che sta ad indicare il caporalato:
1. retribuzioni reiterate palesemente difformi dai contratti collettivi nazionali
2. reiterata violazione dell’orario di lavoro, dei periodi di riposo, del riposo settimanale, dell’aspettativa obbligatoria, delle ferie.
3. violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.
4. sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni di alloggio degradanti.
E’ evidente che tali caratteristiche siano presenti anche nello sfruttamento delle lavoratrici da parte dei capofiliera del manifatturiero.
O dovremmo dire caporali?
Lo stesso capofiliera (o caporale?) si presta ad una intermediazione fittizia: infatti, come spesso accade, i turni di lavoro e i prezzi li impone la casa madre del marchio blasonato. Il capofiliera (o caporale?) serve solo a tenere sottopressione ( o a schiavizzare?) le lavoratrici e a fatturare alla casa madre.
La legge sul caporalato va applicata anche ad altri settori, perché anche in altri settori persistono le stesse condizioni di riduzione in schiavitù, soprattutto delle donne.
HO chiesto questo alla deputata Teresa Bellanova, nel corso dell’incontro a Manduria.
Ha risposto impegnandosi due volte:
1. Chiederà che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie, di cui fa parte, apra un fascicolo d’indagine specifico sul caporalato
2. Lavorerà perché la legge sul caporalato sia estesa anche ad altri settori.
Secondo me non basta: è necessario risalire la catena dello sfruttamento e rompere il primo anello: quella della grande distribuzione organizzata e dei marchi commerciali che creano la domanda di schiavi.
Quest’anello della catena si può rompere arrivando ad applicare la stessa legge sul caporalato alle grandi aziende commerciali e ai grandi marchi e non fermarsi invece a punire solo i piccoli imprenditori che si occupano della raccolta sul campo o della prima fase della produzione di scarpe e magliette.
Il caporalato è mafia e va perseguito con le stesse norme che consentono alla magistratura di risalire fino ai boss: interdittiva antimafia e/o sequestro-confisca preventiva anche per le aziende che comprano da altre aziende che fanno ricorso al lavoro degli schiavi e dei caporali.
E la mafia dei caporali, come la mafia della droga, dei rifiuti, dell’edilizia, del turismo, ha un unico e ricorrente elemento che la caratterizza: il potere sul corpo delle persone, soprattutto donne.
Se continuiamo a perseguire solo i piccoli criminali, cioè i caporali e i piccoli imprenditori, il fenomeno della riduzione in schiavitù, dunque del caporalato non si potrà arginare. Perché è funzionale al sistema: è il sistema ad essere mafioso ed è quello che si deve con forza disarticolare.
Ma c’è la volontà?
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Marilù Mastrogiovanni
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