Di Thomas Pistoia
Si chiama Gino.
Lavora qui, è un operaio specializzato e sa che, in questa stanza, il pavimento è ricoperto da centosessantaquattro mattonelle.
Le ha contate tutte. Escluse quelle del bagno lì in fondo.
In verità questo non sarebbe il suo reparto, ci tiene a precisarlo, lui sta da un’altra parte; è che quei deficienti degli uffici hanno fatto un errore. Si sa, una lettera, una cifra sbagliata e il padiglione diventa un altro.
Ma non c’è problema, si accorgeranno del disguido e, quanto prima, lo rimanderanno nella sezione dell’acciaieria che gli compete.
Sì, lo ammette, sente molta nostalgia delle sue mansioni abituali. Ogni tanto va nel vecchio reparto a trovare i suoi ex-colleghi, così, come per respirare un po’ di aria di casa… Anche per dir loro di non preoccuparsi, eh! Che lui sta per tornare!
Solo che… Sono sempre tanto occupati e… non lo calcolano molto.
Fa loro visita durante la pausa. Si avvicina, li saluta, ma il massimo che ottiene è un mugugno. Spesso, sembrano seccati della sua presenza. Allora… prova a dire qualche parola, la butta lì sull’ultima partita di calcio, sul tempo che fa, ma niente. Lo ignorano, anzi, quasi lo fuggono. Come se avere a che fare con lui fosse qualcosa di disdicevole, da evitare. Alla fine, Gino saluta e va via. Torna nel suo padiglione.
Quando entra, come al solito, trova Antonio. Lui è un maestro dell’acciaio, nel senso che conosce questo metallo come se lo avesse inventato lui, anzi, come fosse parte di sé. Era stimato dai compagni di lavoro, trovava sempre la soluzione giusta per ogni problema, la produzione con lui era al sicuro.
Antonio ora sta qui, ogni giorno, all’ingresso, percorre su e giù il corridoio e parla.
Parla da solo. Biascica e cammina con le mani aperte sull’addome. Sembra quasi reciti un rosario o un salmo. In realtà nessuno sa cosa dice e nessuno ha desiderio di saperlo.
In fondo al corridoio c’è la stanza delle centosessantaquattro mattonelle. Gino si è ripromesso di contare, poi, anche le imperfezioni dell’intonaco delle pareti. Prima quelle piccole, poi quelle più grandi, così ci metterà più tempo. Così le ore passeranno più in fretta.
Quando entra nella grande camera il silenzio cede posto al rumore.
Sono i suoi nuovi colleghi di reparto.
Quelli più lucidi sono seduti in terra, nonostante il freddo, in cerchio, e giocano distrattamente a carte. Ogni tanto uno dice “tocca a te” e richiama alla realtà un altro che, intirizzito, si è perso nei suoi pensieri e non si è nemmeno reso conto che la briscola è a coppe.
L’ambiente è grigio, gelido, malsano. Le finestre sono malmesse e lasciano entrare i rigori dell’inverno e il calore cocente dell’estate.
Ci sono poche, pochissime sedie e vengono disputate, rubate, perché sedere in terra equivale a congelarsi. Gino, una volta, ha provato a proporre di stabilire dei turni.
“In fondo siamo in fabbrica, no? – ha detto – E’ normale avere una turnazione”.
Non l’hanno ascoltato.
Ogni giorno c’è una rissa. Qualcuno ha guardato male qualcun altro, c’è sempre uno che dà una risposta di troppo e giù botte. Non è vero. Sarebbero conversazioni normalissime se la giornata non fosse così atrocemente lunga, così interminabile da sembrare infinita. E quella di oggi uguale alla precedente, e uguale alla successiva. Così la tensione sale, la rabbia cresce, in fondo è normale, in una situazione del genere chiunque perderebbe la testa.
Chiunque.
Prendi Angelo, per esempio. Pur di non tornare al lavoro, ha tentato il suicidio. Lo ha fermato un vicino di casa, ma non è detto che la prossima volta andrà nello stesso modo.
C’è un guardiano, un vigilante del padrone, con la pistola nella fondina, sorveglia tutti e non interviene mai.
Insomma, è un carcere, o forse è meglio dire un manicomio.
Questi lavoratori possono anche ammazzarsi a vicenda, purché lo facciano all’interno di questa struttura. Nessuno si preoccupa di quelli che urlano e girano in tondo come gli animali nelle gabbie degli zoo. L’importante è che rimangano qui.
A non fare nulla.
Gino dice che lassù negli uffici si sono sbagliati, ma non si sono sbagliati per niente. E’ che la fabbrica da pubblica è diventata privata. Ora ha un solo padrone. Il padrone è una famiglia ed è giusto chiamarla così, “famiglia”. Ha un capostipite, un capo, un boss, che decide per tutti.
Il boss pensa soltanto ai piccioli, o, come si direbbe qui, “pinse sultante a l’sorde“.
Gino e i suoi compagni non sanno che questo è soltanto l’inizio e che un danno anche più grave lo subiranno prima la città, poi tutto il territorio. L’inquinamento della fabbrica, votata al profitto senza alcuna cura per l’ambiente e la salute della gente, ammalerà ogni cosa. E i venti porteranno la stessa malattia, fumi, polveri e tossine anche più lontano.
Pochi anni e molte persone moriranno.
Ma è presto, nessuno sa ancora quale orrore sta per abbattersi su questa porzione d’Italia. La “famiglia” non vuole risparmiare (miliardi) soltanto sulla manutenzione e la messa in sicurezza della fabbrica, vuole risparmiarli anche sugli operai.
Così il boss ha avuto un’idea. Ogni operaio, anche Gino, ha ricevuto una lettera in cui gli è stato comunicato che lo stipendio resta immutato, ma la sua qualifica cambia, scende di uno scalino. Viene degradato, insomma.
Perdere il lavoro, creare tensioni con la proprietà spaventa tutti. Così molti hanno chinato il capo e hanno firmato.
Un manipolo di eroi (ecco, Gino definisce se stesso e i suoi compagni in questo modo) non ha invece accettato la prepotenza e si è rifiutato di firmare. Il boss ha così inventato quello che un giorno si chiamerà mobbing: ha confinato i sovversivi in questa palazzina. Devono stare qui giorni, settimane, mesi, in un posto vuoto, a non fare niente. A impazzire. Insieme ma da soli.
E intanto l’esempio è stato dato, l’idea è passata, la adottano anche altri padroni, in altre fabbriche.
Gino continua a ripetere a tutti i nuovi arrivati che, no, lui è qui per un errore, sono stati quei deficienti degli uffici, hanno sbagliato lettera…
Dice così perché… Perché si vergogna. Anche se sa di essere una vittima, anche se sa che a vergognarsi dovrebbero essere la “famiglia” e il suo boss, lui non può fare a meno di nascondersi.
Perché il lavoro è la dignità di una persona, e lui e i suoi compagni non hanno più un lavoro, quindi non sono più delle persone.
Sono schiavi ricattati da padroni che accumulano miliardi per sé e se ne fottono apertamente di tutto il resto.
Gino conterà le imperfezioni dell’intonaco, prima quelle piccole, poi quelle grandi. Conterà le briciole di un panino mangiato da un suo collega.
Conterà le piastrelle del bagno, le mattonelle del corridoio e i passi che fa Antonio durante tutta la giornata.
Poi tante, tante altre cose ancora.
In attesa della fine del turno.
Qui, in Europa, in Italia, nel capannone del Laminatoio A Freddo, chiamato più brevemente “LAF”.
Nell’Anno Domini 1998.
All’Ilva di Taranto.