Lettera dal fondo

di Thomas Pistoia

Leuca 39°47,734N – 018°22,115E

31 Luglio 1943

Amore mio.
Ti scrivo dal mare. No, non da un porto, ma proprio dal mare. Da sott’acqua.
A quest’ora ti avranno già detto quello che è accaduto e probabilmente mi starai piangendo, senza immaginare che sono ancora qui, ancora vivo.
Mi dà angoscia pensare al dolore che stai provando e che proverai ancora per tanto, tanto tempo.

Io… Non ancora non ho capito bene com’è andata. L’unica certezza che ho è che ci hanno colpiti.
Due giorni fa abbiamo dovuto interrompere la missione per un’avaria. Nei pressi della Calabria abbiamo invertito la rotta e ci siamo diretti verso Leuca. Il guasto ci ha costretto a navigare in superficie.
Pensa che… Ero contento e, quando è giunto l’ordine di puntare verso il Salento, ho fatto un’enorme fatica a non esultare davanti ai superiori! Ritrovarmi così, all’improvviso, a due passi da casa! Ci pensi? Avremmo potuto vederci, avrei potuto chiedere un permesso!
Ma il nemico… Il nemico era lì, in agguato, e non lo sapevamo.

All’alba il comandante ha chiamato tutti in coperta. Attendevamo la nave d’appoggio che ci avrebbe scortato fino a terra, però… Non so. Tardava. E per qualche motivo che ora neanche ricordo, ho fatto tardi anche io. Stavo con il collega, qui, nei pressi della coda del sommergibile. Abbiamo udito un boato pauroso, poi… Poi un vortice fatto di aria e acqua ci ha scaraventati in fondo. Abbiamo perso il senso dell’orientamento. Eravamo storditi, il mare spaccava ogni cosa e… avevo male ovunque, vedevo tutto intorno a me che saliva, saliva su.
Istintivamente io e l’altro ragazzo ci siamo afferrati per un braccio, poi non so chi ha tirato chi. Ci siamo ritrovati in un compartimento stagno del battello e siamo riusciti a chiuderlo ermeticamente prima che l’acqua ci raggiungesse.

Amore mio.
E’ stato un errore. Sì, sarebbe stato meglio morire.
L’urto che abbiamo sentito qualche minuto dopo ci ha fatto comprendere che il “Pietro Micca” aveva toccato il fondo del mare.
Da tre giorni io e il mio commilitone siamo prigionieri della sua carcassa. In questa plancia, qualche strumento funziona ancora. Siamo riusciti a stabilire che ci troviamo a più di 80 metri di profondità. Significa, cuore mio, che non ci rivedremo mai più, non esistono uomini o macchine al mondo in grado di farmi risalire. Nessuno, nessuno ci può salvare.
Il mio collega continua a tentare di comunicare via radio, a mandare esseoesse. Gli apparecchi gracchiano, poi si spengono, ma io lo lascio fare. Lo capisco. I suoi appelli sono la disperazione che si fa voce, il desiderio di dire addio, equivalgono a questa lettera che sto scrivendo, che tu però non potrai leggere mai.

O forse no. Forse in futuro ci saranno le macchine e le persone in grado di scendere qua sotto. Magari non ci sarà più il mio corpo, ma potranno leggere questo foglio di carta. Lo metterò in una bottiglia.
Non c’è più molto tempo. Abbiamo scoperto che nella stanza accanto alla nostra ci sono altri due dell’equipaggio. Comunichiamo con loro con l’alfabeto morse, picchiettando sulle pareti. Hanno detto… Hanno detto che non abbiamo speranze e che siamo destinati a una morte orribilmente lenta per fame, per sete, per mancanza di ossigeno. Hanno ragione. Loro sono fortunati, hanno con sé un’arma. Io e il mio collega, qui, invece, dovremo aspettare.

Ecco, due colpi di pistola. Sono giunti soffocati, ma li abbiamo sentiti. I due marinai dall’altra parte hanno risolto il problema.
Restiamo noi.
Abbiamo deciso di non prendere alcuna precauzione, parliamo, ci muoviamo il più possibile. In questo modo consumeremo più in fretta l’ossigeno. Io, per ora, sto qui, seduto, in silenzio. Perché ti sto scrivendo. Il foglio è quasi finito e devo fare in fretta.
Devo dirti che ti amo e che avrei voluto passare la mia vita con te. Ho sognato la fine di questa guerra schifosa, il mio ritorno a casa, il nostro matrimonio.
Ho sognato i volti commossi dei nostri genitori, il momento in cui avresti detto davanti a quel panzone di prete il tuo “lo voglio” e il momento in cui lo avrei detto io. Sicuramente mi sarebbero tremate le gambe e la voce mi sarebbe morta in gola per l’emozione. Ho immaginato il tuo vestito, semplice, ma reso sfarzoso dalla tua bellezza. Ho fatto con la mente il viaggio sullu traìnu dalla chiesa fino a casa.

Poi… Poi ho visto la nostra vita insieme. Il lavoro quotidiano, la nostra casa che cresce piezzu dopo piezzu, la friseddha col pomodoro mangiata in veranda nelle sere d’estate, mentre i grilli cantano. I figli.
Ho immaginato i volti e i sorrisi dei figli che non avrò.

Passerò queste ultime ore qui, a pensarti. Forse riuscirò a intercettare il tuo dolore, a fare in modo che tu mi senta vicino, per renderti meno grave questo momento. Sto per morire, amore mio, eppure vorrei sentirti ridere.
Ti prego.
Ricordami sempre, ma non fermarti.
La vita è troppo bella per sprecarla in fondo a un lutto. Cerca ancora la felicità, trovala, se puoi. Cerca l’amore. Vivi. Vivi anche per me.
Il mio compagno non si muove più e sento che faccio sempre più fatica a respirare.
Finisco così. Muoio da marinaio e la mia tomba è il mare.
Ti mando un bacio, l’ultimo. Da qualche parte passerà. Attraverserà queste pareti di metallo, risalirà gli abissi, guadagnerà il cielo e ti raggiungerà.
E tu lo sentirai.
Sì, lo sentirai.
Si è fatto buio.
Dirti che ti amo, adesso, è come dirti addio.

One Thought to “Lettera dal fondo”

  1. valentino de luca

    terribile testimonianza di una triste fine vissuta con disperazione fino all’ultimo istante nella certezza di una morte sicura

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