Don Antonio Coluccia, il prete operaio scomodo alla mafia, ai vescovi, ai politici

Fa nomi e cognomi di mafiosi, politici collusi, aziende. Scuote le coscienze, parla ai cittadini, non ai fedeli. Sogna un Salento libero dalle mafie ma mette in allarme: “Sono dappertutto”. E perciò hanno sparato contro la sua macchina

di Marilù Mastrogiovanni

 

 

Quattro colpi di pistola calibro 9 contro l’auto di don Antonio Coluccia, un’Alfa Romeo che il sacerdote utilizza quando è nel paese dei suoi genitori, Specchia, nel basso Salento. Uno dei paesi più belli d’Italia. E’ quel piccolo gioiello scelto nel 2012 dalla Presidenza del consiglio per promuovere il turismo nei piccoli borghi italiani. E Specchia è scelta da turisti stranieri e colti, che scelgono di comprare masserie, palazzi, ville.

E’ a Specchia, dove le trattorie sofisticate ed eleganti sono sempre piene, che nella notte tra domenica 16 dicembre e lunedì 17, qualcuno ha crivellato di colpi la sua macchina.

 

Lui vive a Roma, e fino a poco tempo fa era sotto scorta.

Don Antonio interpreta il suo sacerdozio con senso civico e di cittadino attivo: vive in una casa sequestrata alla banda della Magliana e dà accoglienza a tossicodipendenti e piccoli spacciatori, migranti e persone in difficoltà. Dà ospitalità e ascolto anche a pentiti di mafia.

“Io tolgo la manovalanza più povera e disperata alle organizzazioni criminali e questo dà fastidio”: don Antonio sa perfettamente indicare da quali ambienti, romani, fossero arrivate finora le minacce che l’hanno costretto a vivere sotto scorta.

Ma nel suo Salento non aveva mai ricevuto segnali così ultimativi. Eppure anche nel Salento, per chi conosce le opinioni e l’impegno di Antonio Coluccia, non è difficile risalire al contesto in cui è maturata la decisione di chi ha fatto premere l’indice di quella calibro 9.

Don Antonio è un prete che usa parole chiare e per questo scomode.

Don Antonio fa nomi e cognomi e collega i nomi e i cognomi ai contesti e, collegandoli ai contesti, inchioda tutti, e prima di tutti i cittadini omertosi e complici.

Don Antonio, quando “scende” nel suo Salento, parla di politici compiacenti con la sacra corona unita, parla dei colletti bianchi e degli imprenditori che vincono appalti truccati, parla di chi va a elemosinare un posto di  lavoro ai mafiosi e agli amici dei mafiosi e ai politici amici dei mafiosi.

Non usa mezze misure: dice che la “sacra corona unita non parla più in dialetto, ma parla in italiano e veste in giacca e cravatta”.

Don Antonio quando “scende”, e prima di “scendere”, mi chiama: “Dove sei”?

Io rispondo.

E lui: “Aspettami lì, fra mezz’ora vengo a prendermi un caffè”. Don Antonio dà la sua solidarietà con gesti concreti, non con comunicati stampa.

 

Don Antonio non si tira indietro quando deve prendere posizione e non ha paura di farlo davanti a chi indossa la fascia tricolore.

Ha partecipato a molti incontri nel basso Salento, dove la sacra corona unita pervade la vita pubblica, infiltrandosi nelle pubbliche amministrazioni, nelle imprese, nel vivere civile.

Don Antonio nel basso Salento ha fatto i nomi degli esponenti del clan Scarlino-Giannelli, del clan Montedoro-Potenza, ha parlato di rifiuti, di Igeco e di Burgesi, di tumori e inquinamento della falda, delle infiltrazioni nella pubblica amministrazione, dello smaltimento dei fusti di pcb.

Ha puntato l’indice anche contro la chiesa bigotta, che si batte il petto ma celebra i funerali dei mafiosi, confessa i mafiosi e i loro amici, non scende per strada a manifestare.

Invece lui manifesta, oh! se manifesta.

Dopo l’affissione dei manifesti contro la sottoscritta da parte dell’amministrazione Stefàno e del suo comitato elettorale, ha manifestato il 21 marzo 2017, ed ha parlato con me e Luciana Esposito, altra collega minacciata ma senza scorta di Ponticelli, davanti ad una platea attenta e silenziosa di ragazze e ragazzi del liceo Vanini di Casarano.

Nel luglio scorso ha parlato a Casarano: pubblichiamo qui la trascrizione integrale del suo intervento.

E siccome, seguendo il suo esempio, la solidarietà deve diventare azione, prendiamo l’impegno di continuare a pubblicare le trascrizioni dei suoi passionali discorsi, che lui tiene indossando la toga, alzando il dito in alto e poi puntandolo addosso agli astanti.

 

“Vau e li fazzu ccappottare sulle seggie”, e poi ride. Vado e li farò cadere giù dalle loro poltrone: è lo spirito con cui don Antonio si appresta ai dibattiti pubblici.

“Osare, rischiare, compromettersi”: questo il suo motto. Chiede ai cittadini di prendere posizione, di rivendicare il proprio diritto al lavoro, di rompere l’omertà, di non cedere ai ricatti e ai compromessi.

Poi cita la Costituzione, l’articolo 1  sul popolo sovrano e sul diritto al lavoro e l’articolo 21 sulla libertà d’informazione, sottolinea che la libertà degli uomini passa dalla conoscenza e che la conoscenza passa dall’informazione libera. Distingue la “chiesa”, che è libera, dagli “uomini di chiesa”, che celebrano i matrimoni dei mafiosi, che celebrano i funerali dei mafiosi, che li confessano e danno la comunione. Accusa la CEP, la Conferenza episcopale pugliese perché sta zitta e dice “ho paura del silenzio della CEP quando a Nardò vengono schiavizzate le persone sui campi”.

Cita le date dei crimini di mafia, con precisione maniacale, spazia da Giovanni Paolo II a Martin Luther King, da Paolo Borsellino a Sant’Agostino e di tutti ricorda la definizione di “coraggio”.

Poi affonda il coltello nella piaga, quando enumera i Comuni salentini sciolti per mafia, e parla dei mafiosi che danno lavoro e invita i cittadini a rivolgersi sempre alle Istituzioni, non a “qualcuno”, perché lo Stato sono loro, non “qualcuno”.

Dice che “Gesù aveva le palle” e che anche loro devono reagire: li invita a partecipare alle manifestazioni, a scendere in piazza, dice “Svegliati! Alzati! Rifletti!”.

Sgrana uno dopo l’altro don Luigi Sturzo, don tonino Bello, papa Francesco, sceglie uomini di chiesa che hanno detto no a “mammona”, che hanno scelto un’azione politica per vivere il loro credo religioso e diventa “politico” anch’egli, critica i governi fatti dai “tecnici”, mentre invece la Costituzione dice che il popolo è sovrano. Chiama “vigliacco” e “codardo” chi sale sul carro del vincitore, chi cerca la strada facile invece di quella difficile ma retta e dice: “Quelli così non mi servono neanche per la messa”, invitando cioè chi non è capace di prendere posizione, a non presentarsi alle funzioni religiose.

Lui, ricorda di essere stato un operaio dell’Adelchi: uno dei due grandi gruppi industriali su cui si reggeva il distretto del settore calzaturiero nel Salento, il più grande d’Europa. Ora le aziende del gruppo Adelchi, fallite e travolte da una grande inchiesta giudiziaria per truffa, hanno lasciato per strada migliaia di operai. Lo ricorda ogni volta don Antonio, perché ricorda a tutti che lui è ancora figlio di questa terra, ma della terra buona, quella che ha dato da mangiare ai propri figli il pane guadagnato onestamente, non la terra su cui si vogliono portare avanti speculazioni edilizie, sradicando gli ulivi, aprendo lidi dove si spaccia.

“Ormai il Salento è dappertutto così”, dice, eppure si rivolge alla parte buona della società, quella che lavora e manda i figli a scuola, quella che li fa studiare “fuori” continuando a lottare qui, sperando che tornino.

Perché quei colpi di pistola dunque, a don Antonio, prete operaio senza scorta?

Perché don Antonio dà fastidio a tutti: ai vescovi, ai politici, ai collusi, ai colletti bianchi, ai fedeli battipetto, non solo ai mafiosi. E’ un uomo libero, informato, che agisce con consapevolezza nella realtà, prende posizione e invita a farlo. E questo proprio non si fa.

 

 

 

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