La mano di Delia

Di Thomas Pistoia

Il giovane uomo si è recato dallo sciamano della tribù portando con sé l’unico animale che gli appartiene: un vitello.
E’ molto preoccupato, teme che la sua offerta non venga considerata sufficiente. La dea madre terra potrebbe ritenerlo un sacrificio troppo piccolo e lo stregone potrebbe, per lo stesso motivo, non impegnarsi abbastanza nel rito propiziatorio.
Ma, al suo arrivo davanti alla capanna, colui che parla con gli dei lo rassicura: la dea madre terra, colei che fa nascere le cose del mondo, apprezza anche i doni più poveri, se le vengono elargiti con cuore puro. Inoltre la compagna del giovane è benvoluta da tutta la tribù, nessuno vuole che le accada qualcosa di male.

Il sacrificio si svolgerà davanti a tutti, con la partecipazione delle donne del villaggio. La dea madre terra non potrà non ascoltare la supplica che le verrà rivolta.
Dunque, secondo l’usanza, al tramonto del sole si è levato alto il grido di dolore e di morte del vitello. Una lama gli ha attraversato la giugulare e ora il suo sangue si riversa sul piccolo altare di pietra, mentre lo sciamano e le donne pregano ad alta voce per la ragazza che, laggiù in una capanna, combatte contro la malattia.

Il compagno la tiene tra le braccia, mentre lei, sudata e sfinita, poggia le mani sul proprio ventre rotondo, al cui interno sta crescendo la vita, e urla senza tregua per le fitte lancinanti.
– Resisti, amore mio – le dice lui – Il sacrificio è terminato. Vedrai che la dea non ci abbandonerà. Senti le preghiere delle donne? Sono tutte lì, dallo sciamano, c’è anche tua madre con loro. Guarirai. Presto guarirai.
La donna ansima e ad ogni stilettata di dolore percepisce la verità, ma non la dice al suo uomo per non farlo soffrire prima del tempo. Avrà molte lune, nel corso della vita, per piangerla. La verità è che lei e il bambino non hanno alcuna speranza di sopravvivere.

Per questo piange, non solo per se stessa, per la madre che non sarà, ma soprattutto per quella creatura destinata a non vedere mai la luce.
Sognava un maschietto, un figlio bello e in salute, nel delirio della febbre le sembra quasi di poterlo vedere in volto, di poterne conoscere il sorriso.
E piange. Perché può soltanto immaginarlo, e quanto dispetto sente crescere nel cuore quando pensa che… Che lui è così vicino! Così vicino, dentro di lei! E non potrà mai abbracciarlo… non potrà mai guardarlo negli occhi o ascoltare la sua voce cucciola riempire all’improvviso il silenzio della notte.

Le invocazioni nel villaggio continuano, ma il buio scende a far breccia alla morte.
La ragazza sente che la pelliccia che la avvolge non può allontanare il freddo che le proviene da dentro; si inarca in preda alle convulsioni, ma non urla, non urla più. I suoi sono ora flebili lamenti. Una parte di lei è già morta, perché sente che, nel suo grembo, il piccolo non è più.
Forse si è addormentato sognando gli ulivi, e le nuvole, e le corse dei cavalli, e i raggi del sole e il canto della pioggia tra le foglie. Forse li conosce perché li ha visti e uditi, a volte, attraverso i pensieri di sua madre. Forse la dea terra lo ha preso per mano e lo sta tenendo con sé per farsi perdonare di non essere arrivata in tempo per salvarlo.

Disperata, la ragazza agonizzante, guarda un’ultima volta il suo sposo. E lui se ne accorge. Quel bagliore negli occhi è come un saluto. Come un addio. Poi le pupille si spengono in una vuota fissità senza fine.
L’urlo di dolore dell’uomo, nel villaggio, suona come un segnale. Lo sciamano e le donne interrompono le preghiere. Il sacrificio purtroppo non è servito. La dea morte è stata più veloce e più scaltra.

Le donne del villaggio si occupano del rito funebre. Vestono la ragazza con le pelli più belle, le ornano il capo e le braccia con i monili più preziosi. Lo sposo, il padre del bimbo mai nato, con la morte nel cuore, appoggia dolcemente quel corpo, che tanto ha amato, dentro una caverna. Lo pone su un fianco, con una mano sotto al capo e l’altra ferma lì, dov’è rimasta quando la vita se n’è andata: sul ventre, quasi a voler proteggere il figlio.
Sembra che dorma.

Sembra che dorma, pensa l’uomo che, quasi trentamila anni dopo, in una grotta nei pressi di Ostuni, riesce a scorgere nell’apparente disordine sparso di un mucchietto di ossa, il disegno di un corpo femminile e quello di un feto quasi del tutto formato.
E’ un paleo-etnologo, uno studioso, che, da subito, si rifiuta di dare alla sua scoperta il nome in codice che le danno i suoi colleghi: Ostuni 1.
No. Lui, in quei due scheletri, vede qualcosa che non è morto: un gesto materno, un sentimento mai domo nemmeno davanti allo sfregio portato dal lutto.

L’amore in fondo non ha epoche ed è, da sempre, il motore che muove tutto quanto.
L’uomo pensa al suo, di amore. E forse, da qualche parte dentro di sé, in un codice atavico della memoria del genere umano, sente ancora l’urlo di dolore dello sposo di quella ragazza sconosciuta, in quella notte disgraziata di decine di migliaia di anni fa. E lo fa suo. E prende la decisione.
Sta per sposarsi. La sua fidanzata si chiama Delia.
Ostuni 1 si chiamerà Delia, come lei.

Sì, d’ora in poi riposerà in un museo, ma non sarà un reperto qualsiasi, avrà un nome.
Le spetta di diritto.
E’ la ricompensa per quel suo testardo gesto di madre.
Quella mano di scheletro sul ventre che, per secoli, non ha mai smesso, nemmeno per un secondo, di proteggere il suo bambino.

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