“Giornalisti: la bestia nera della criminalità organizzata”: il rapporto di Reporters sans Frontieres

Più di 30 i giornalisti uccisi dalle organizzazioni criminali, dall’inizio del 2017, alcuni nel cuore della civile Europa. L’allarme dell’organizzazione internazionale

 

L’unica scelta per i cronisti che scoprono vicende riguardanti la criminalità organizzata è, spesso, non dire niente o rischiare la vita.

Nel mondo sono più di 30 i giornalisti uccisi da organizzazioni criminali dall’inizio del 2017: è quanto denuncia Reporters sans Frontieres, organizzazione internazionale a presidio della libertà d’informazione, che ha presentato oggi a Parigi il rapporto “Giornalisti: la bestia nera della criminalità organizzata”; un dossier che raccoglie casi di giornaliste e giornalisti di tutto il mondo finiti nel mirino delle mafie a causa delle loro inchieste. E spesso, sottolinea Reporters sans Frontieres, a questo si aggiunge la connivenza, o l’indifferenza, delle istituzioni di alcuni Paesi, che lasciano impuniti i crimini contro la libertà d’informazione.

Il report comprende alcune interviste ai cronisti, ai loro familiari e colleghi. Alcuni di loro vivono sotto la protezione della polizia ventiquattr’ore su ventiquattro, proprio a causa delle minacce ricevute. Alcuni raccontano che gruppi criminali hanno incendiato le loro case, o hanno preso di mira la loro famiglia. Altri parlano di familiari o colleghi scomparsi o uccisi in relazione alle loro inchieste. Tutti affermano che la criminalità organizzata odia il clamore, e che non si ferma davanti a nulla pur di ridurre al silenzio i giornalisti ficcanaso.

“I giornalisti che coprono argomenti pericolosi come il crimine organizzato – afferma Cristophe Deloire, segretario generale RSF – spesso si ritrovano soli e vulnerabili di fronte ad una rappresaglia. I governi devono fare tutto il possibile per dar loro supporto e sicurezza, e non ignorare le richieste di protezione. E certamente, non dovrebbero minacciare a loro volta di revocare la scorta, come ha recentemente fatto il ministro dell’Interno italiano, in un vergognoso tentativo di intimidazione verso Roberto Saviano”.

La criminalità organizzata non conosce confini. Quest’anno, almeno 10 giornalisti sono stati uccisi dalle organizzazioni criminali tra Brasile, Colombia e Messico, dove dominano i cartelli della droga. La cifra reale potrebbe essere molto maggiore, perché spesso criminali e politici sono alleati contro i giornalisti, e l’impunità regna. In India, Cambogia e in alcuni Stati africani, i gruppi criminali si arricchiscono infrangendo tutte le regole per la salvaguardia ambientale, per razziare le risorse naturali. I giornalisti che hanno puntato un faro sul traffico di minerali, legname e petrolio sono esposti a terribili ritorsioni. A marzo scorso Sandeep Sharma, un giornalista indiano che ha indagato su una “mafia della sabbia” locale, è stato investito di proposito ed ucciso da un camion.

 

L’Europa non è da meno. Almeno due giornalisti investigativi sono stati uccisi in relazione al loro lavoro negli ultimi due anni: Daphne Caruana Galizia, uccisa a Malta, nell’ottobre del 2017, da una bomba posizionata sotto la sua macchina, e Jan Kuciak, sparato a febbraio 2018 mentre si trovava a casa, in Slovacchia, insieme alla fidanzata. Entrambi i giornalisti avevano mostrato interesse per le attività della mafia italiana nei loro Paesi: rapporti finanziari sospetti, che presumibilmente coinvolgevano politici e imprenditori locali. In Italia, Roberto Saviano è uno dei dieci giornalisti protetti giorno e notte da una scorta di poliziotti. Come Paolo Borrometi, obiettivo di un complotto mafioso in Sicilia quest’anno. In tutto, più di 200 giornalisti italiani hanno ricevuto qualche forma di protezione da parte della polizia lo scorso anno.

Cosa possono fare i giornalisti, di fronte ad un’influenza tanto vasta della criminalità organizzata, e alla collusione, o quantomeno alla passività delle autorità? Come possono continuare a lavorare sapendo che il crimine non si ferma davanti a niente, quando sanno che stanno mettendo a rischio la propria vita e quella delle loro famiglie? In Giappone la yakuza, la mafia locale, non ha avuto scrupoli nell’uccidere il figlio del noto giornalista Mizogouchi Atsushi in risposta alle sue inchieste, nel 2006. Da allora, l’autocensura è diventata la regola.

Di fronte a tanta violenza, alcuni giornalisti si sono arresi. Come il proprietario del giornale messicano Norte de Ciudad Juárez, che ha gettato la spugna dopo che una tra i suoi migliori cronisti, Miroslava Breach, è stata uccisa lo scorso anno. Altri, come Pavla Holcová, una giornalista ceca che ha collaborato con Kuciak, brandiscono la penna come un’arma difensiva, considerando la copertura delle attività illegali di questo o quel gruppo criminale come il miglior modo per proteggere se stessi. Ma questo significa fare squadra con altri cronisti per ridurre il rischio. È questo che sempre più giornalisti fanno, unendo le forze e lavorando su inchieste collettive all’interno di important consorzi internazionali. Una risposta collettiva alla mafia.

 

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