Standing ovation

Il più debole, il più piccolo, un giorno, magari una domenica come tante altre, alza la testa e dice “No, stavolta no. Stavolta vinco io”. Si chiamava Giordano Negretti e come tutti noi è stato tra i pali tutta la vita

 

Non è certo da questi particolari che si giudica un giocatore…

Ha militato in serie A, ma per pochissimo tempo, in una squadra che, promossa per la prima volta nella sua storia, è poi immediatamente retrocessa.

Sì, è stato ritratto sugli album Panini, ma non è che i ragazzini si strappassero le vesti per la sua figurina… Poi, all’epoca, le figurine della serie B erano piccole piccole.

E i tifosi? Non erano sempre felici delle sue prestazioni. Dicevano che faceva le papere, ma – avrebbe voluto rispondere lui – difficile non prendere goal quando davanti non hai una difesa, davanti alla difesa non hai un grande centrocampo e in attacco hai solo due argentini. Come fai ad affrontare le grandi squadre con una formazione così? Qualcuno ribatteva che le papere le avrebbe fatte anche se avesse giocato con davanti Gentile, Cabrini e Scirea, ma, ai fini di quello che stiamo per raccontare, tutto ciò ci interessa relativamente.

La storia racconta, invece, quello che successe a tre giornate dalla fine di quel campionato di serie A. Gli eventi non cambiarono certo la vita del nostro protagonista, se non per qualche settimana, ma proprio per questo ha senso ricordarlo. Dopo gli onori delle cronache, negli anni successivi, non giocò mai più nella massima serie e oggi, a oltre trent’anni di distanza, si ricordano di questo portiere, e a gran fatica, soltanto pochi tifosi espertissimi, quelli, per intenderci, che la sera, a letto, anziché fare l’amore con la moglie, rileggono pagine e pagine della loro collezione di vecchi almanacchi del calcio.

Quella domenica, dicono questi cultori del Novantesimo Minuto di Paolo Valenti (e sono molto più precisi quando sono anche tifosi della squadra avversaria), allo Stadio Olimpico c’era una grande festa. Le tifoserie delle due squadre condividevano le curve e non si distinguevano neanche, dato che entrambe le compagini recavano come colori sociali il giallo e il rosso. Non c’era rivalità, il risultato era già scritto. La partita si svolgeva tra una squadra molto forte e l’ultima in classifica, già matematicamente retrocessa. La squadra migliore, la domenica precedente, dopo una grande rimonta, aveva raggiunto la capolista e ora cominciava il duello a distanza per conquistare lo scudetto. Ripetiamolo, mancavano soltanto tre giornate alla fine.

Le due squadre in testa non avrebbero potuto perdere nemmeno una delle tre partite rimaste, pena il concedere un vantaggio prezioso e probabilmente incolmabile agli avversari.

Lui, il nostro protagonista, proprio quella domenica, avrebbe guardato l’ennesima disfatta dei suoi compagni dalla panchina. Nessuno ricorda perché, ma aveva litigato con il Mister, forse gli aveva risposto male o una cosa così e quello, per punizione, lo aveva messo di riserva.

La squadra più forte passò immediatamente in vantaggio, grazie al colpo di testa di uno dei suoi migliori giocatori, già campione del mondo nell’82. E vai, pensarono tutti, ora comincia la goleada…

Poco prima della mezz’ora, però, avvenne quella che forse fu la svolta: il collega del nostro portiere di riserva, nell’uscire sui piedi di un attaccante, si infortunò. Suo malgrado, il Mister dell’ultima in classifica dovette sospendere la punizione data al giocatore screanzato e mandarlo in campo.

Il resto si perde in una piccola e rammentata da pochissimi leggenda: c’è chi dice che la squadra più forte snobbò la partita e, quando si rese conto che l’avversaria già retrocessa giocava sul serio, era ormai troppo tardi; c’è chi dice che un giocatore commise l’errore di prendere in giro gli avversari più deboli, suscitando in loro un moto d’orgoglio epico, tipo Achille quando si incazza perché gli stendono l’amico suo; altri sostengono che fu il Mister a dare ai suoi la voglia di uscire da quella partita a testa alta; altri ancora (ma è un’ipotesi poco battuta, perché nega il mistero stesso in cui risiede la bellezza del calcio) insinuano che qualcuno si era venduto.

Una cosa è certa: alla fine del primo tempo i retrocessi conducevano per 2 a 1. Nella ripresa ci si aspettava la replica micidiale e dirompente degli aspiranti campioni d’Italia, che cominciarono finalmente a capire cosa stavano rischiando e presero a creare azioni su azioni, senza però riuscire a segnare se non troppo tardi, dopo un ulteriore goal degli avversari.

Forse il portiere di riserva neanche oggi riuscirebbe  a spiegare cosa gli successe: lui che, secondo i tifosi, faceva le papere, divenne invalicabile, inviolabile. Ovunque andasse, la traiettoria del pallone si interrompeva tra le sue mani. Parò tutto il parabile, negando la rete a campioni italiani e stranieri (uno dei quali polacco, come il Papa).

Fu la metafora del granello di sabbia che blocca il sistema più sofisticato, il topolino che terrorizza l’elefante, Davide che abbatte Golia.

Non era più una questione sportiva, era l’immagine stessa di quello che accade spesso nella vita o nella storia: il più debole, il più piccolo, un giorno, magari una domenica come tante altre, alza la testa e dice “No, stavolta no. Stavolta vinco io”.

Il portiere delle papere, l’estremo difensore dell’ultima in classifica, cambiò la storia di quel campionato, estromettendo dalla corsa allo scudetto la squadra avversaria.

Il granello di sabbia, il topolino, il Davide con la fionda, il portiere del Lecce, non era neanche leccese. Era bresciano.

Si chiamava Giordano Negretti.

Oggi ha una pagina su Wikipedia, sulla quale non viene fatto alcun cenno a quella sua prestazione straordinaria, in quella partita Roma- Lecce che si svolse il 20 Aprile 1986 e terminò con il punteggio di 2 a 3.

Ma a noi piace pensare che, ogni tanto, lui stesso racconti questa storia, magari ai suoi nipoti, per insegnare loro che tutti hanno, almeno una volta nella vita, una giornata speciale, in cui la loro stella brilla più forte di quella degli altri.

Tutti, anche i più deboli, sono, almeno una volta, eroi, geni o campioni agli occhi del mondo, che si alza in piedi e li applaude.

Già.

Forse è così.

Forse, davvero, veniamo al mondo tutti portieri del Lecce, già retrocessi.

E stiamo tra i pali, tutta la vita.

In attesa della standing ovation.

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