Di Fernando Greco
(foto di Marta Massafra, Fabrizio Sansoni e Paolo Conserva)
Pubblico numeroso ed entusiasta durante la calda serata inaugurale del 44° Festival della Valle d’Itria nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca: in scena l’opera “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj (1790 – 1848).
Modello di distinzione
Allievo di Paisiello e ultimo rappresentante della Scuola Napoletana, Vaccaj è ricordato soprattutto per il suo metodo pratico di canto, pubblicato nel 1834 e ancora in uso nei conservatori, ma è anche autore di diciassette opere, di cui “Giulietta e Romeo” fu l’unica ad avere un discreto successo in occasione della prima, consumatasi al teatro della Canobbiana di Milano nel 1825.
L’allestimento martinese ha saputo valorizzare appieno una partitura che, se da un lato si inserisce nel filone belcantistico di matrice rossiniana, dall’altro ammicca a turgori già protoverdiani, ricca di inattese raffinatezze che hanno deliziato gli spettatori. Non a caso il grande Gioachino Rossini, nel 1864, ricordava Vaccaj nei seguenti termini: “Io ho amato Nicola quale amico, l’ho ammirato quale collega, il suo nome è però ognora venerato e le sue composizioni sono un modello di distinzione, e nessuno più di lui ha saputo comporre per le voci umane”.
La revisione critica sull’autografo è stata curata ad hoc da Ilaria Narici e Bruno Gandolfi.
Gli interpreti
Senza tentare oziosi paragoni con il corrispettivo belliniano de “I Capuleti e i Montecchi”, opera scritta qualche anno dopo sullo stesso libretto di Felice Romani ispirato alla celebre tragedia shakespeariana, a “Giulietta e Romeo” di Vaccaj va riconosciuta la bellezza di tante pagine dal fascino indiscutibile, momenti di pregevole fattura messi in luce in maniera ottimale dal valido ensemble degli interpreti. L’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala diretta da Sesto Quatrini ha saputo trasmettere con smalto e precisione l’intensità drammatica della vicenda e l’intimo dolore, a cominciare dalle atmosfere donizettiane evocate dalle note del corno durante il breve preludio orchestrale, dando sempre il giusto risalto alle voci.
Il soprano Leonor Bonilla, già lodata al Festival nel 2016 in occasione della “Francesca da Rimini” di Mercadante, ha vestito i panni di Giulietta in maniera impagabile per la freschezza di un aspetto scenico a servizio di un’emissione da manuale, prodiga di puntature e variazioni degne di un’autentica belcantista, eseguite con timbro squisitamente lirico. Tanta freschezza ha trovato il suo degno pendant nello spavaldo Romeo di Raffaella Lupinacci, mezzosoprano forse non abbastanza scuro quanto la partitura pretenderebbe, a giudicare dalla bellezza di un timbro che, luminoso nel registro medio – acuto, perdeva incisività in quelle note basse tipiche della voce di contralto. Il tenore Leonardo Cortellazzi ha vestito i panni dell’austero Capellio con timbro pregevole, inappuntabile rigore tecnico e lodevole credibilità scenica. Autorevole per voce e presenza il baritono Christian Senn nel ruolo di Lorenzo. Il baritono Vasa Stajkic ha infuso giusta arroganza al personaggio di Tebaldo. Di lusso la presenza del soprano Paoletta Marrocu nei panni di un’intensa Adele, madre di Giulietta: a lei si deve il momento forse più commovente di tutta l’opera, quel “Stanca da lunga veglia” cantato sul soffio di una melodia affine ai grandi recitativi belliniani.
Nell’impegnativa sezione corale, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, istruito da Corrado Casati, si è disimpegnato con discreta perizia; di tanto in tanto qualche lieve ritardo rispetto alla brillantezza dei tempi orchestrali.
Lo spazio del segreto
L’impianto scenico fisso creato da Alessia Colosso si è rivelato di grande impatto visivo, secondo le intenzioni della regista Cecilia Ligorio: “… Uno spazio che raccontasse il potere di questo padre-padrone, all’interno del quale però esistesse lo spazio del segreto di Giulietta, dove poterla spiare nella sua intimità”. Ecco allora un muro trasversale con merlature medioevali, all’interno del quale si scopre il balcone di Giulietta, ovvero un’alcova sospesa sulle alterne vicende che alla fine, nel momento dell’apparente morte di lei, verrà chiusa, trasformando l’ambiente scenico in un cimitero, un “giardino di pietra”. Sontuosi i costumi creati da Giuseppe Palella: se il nero e l’oro rappresentano al contempo il lutto e la potenza della famiglia Capuleti, il bianco rappresenta i Montecchi. Efficace l’intervento di mimi che all’inizio, con maschere da lupi, personificano i guardiani di casa Capuleti, mentre nel cimitero, coperti da ricchi drappeggi marmorei, evocano statue funebri e talora ricordano gli scheletri di monaci appesi lungo le pareti di un’antica cripta tombale.
L’opera “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj sarà replicata il 31 luglio prossimo, con diretta radiofonica su RadioTre-RAI.
Ulteriori dettagli sul sito web del Festival: www.festivaldellavalleditria.it.
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