La giornalista aggredita, ospite con a Paolo Borrometi del programma Rai “Uno Mattina”, lancia l’allarme e chiede: “Apriamo focus di legalità nelle periferie”. Il cronista siciliano: “Scorta mediatica ai territori”
Di Francesca Rizzo
“C’è una parte di questo Paese dove il giornalismo ha veramente prodotto profonda democrazia, ma c’è un’altra parte che rimane in mano all’oscurità, agli affari loschi, alle mafie che si occultano, si nascondono, e lì dove non sparano sono ancora più forti”: a parlare è Maria Grazia Mazzola, la giornalista aggredita a Bari, in pieno quartiere Libertà, dalla boss Monica Laera, esponente della famiglia Caldarola e moglie di Lorenzo Caldarola, a sua volta in carcere per associazione mafiosa.

“Già nel 2004 Monica Laera è già stata giudicata socialmente pericolosa, con una sentenza passata poi in giudicato”, ha sottolineato la giornalista.
Mazzola, ospite insieme al giornalista siciliano Paolo Borrometi della trasmissione Uno Mattina, ha parlato della sua aggressione, oggetto di uno Speciale TG 1 che verrà mandato in onda nelle prossime settimane. “Un pugno mi ha colpito all’emivolto sinistro: ho un edema ancora in corso, che non si è riassorbito; ho fatto da poco un’ecografia facciale: l’edema parte dalla base del naso e arriva fino alla parotide, con un tracciato che dimostra la violenza del trauma che ho subito. Io sono stata 40 giorni in prognosi, a curarmi, sono qui e ho ripreso con più passione di prima il mio lavoro, e soprattutto con un intento chiaro di continuare a proclamare verità”.
Lo stesso intento perseguito da Paolo Borrometi, che pochi giorni fa ha partecipato, insieme alla direttora del Tacco Marilù Mastrogiovanni, ad un incontro sul diritto di sapere: proprio a Bari, proprio in quel quartiere Libertà, territorio dei Caldarola, una “famiglia potentissima di mafia”, afferma Maria Grazia Mazzola.
Paolo Borrometi, sotto scorta da agosto 2014, ha raccontato com’è cambiata la sua vita, per aver iniziato a scrivere di mafia “in una terra dove si diceva che la mafia non esistesse, la provincia di Ragusa”: “è cominciato con delle minacce subdole, dei segni sulla macchina, una scritta «stai attento»; poi l’aggressione fisica, che mi costringe a vivere con una spalla menomata ancora oggi. Poi la vita sotto scorta, i quindici processi in cui devo testimoniare e in cui sono parte offesa”.
“Questi – fa notare il giornalista – sono dei segnali fondamentali: non solo e non tanto per Paolo Borrometi, quanto per la gente. Un giornalista non è le minacce che subisce, un giornalista è le inchieste che continua a realizzare. E la gente deve comprendere che la giustizia c’è, si deve fidare della giustizia e si deve fidare del giornalismo. Anche tramite questi segnali in territori come la Puglia, come la Sicilia, penso che si possa riaffermare il valore della denuncia e della giustizia”.

“Anche Pippo Fava – ricorda Borrometi – fu oggetto, non lo dobbiamo mai dimenticare, di una fortissima delegittimazione. Io ricordo le istituzioni della città di Catania che si affrettarono ad accorrere al funerale per dire che la mafia non c’entrava assolutamente, che era tutta una questione di fimmene, questo grande problema in Sicilia, il cosiddetto mascariamento. E invece Pippo Fava fu addirittura il primo che parlò di mafia in provincia di Ragusa”.
“Il problema vero è che questo Paese ha un disperato bisogno di eroi, e invece nessuno di noi vuole diventare un eroe. Noi facciamo solo ed unicamente il nostro dovere, che è quello di informare. La gente sarà libera di scegliere da che parte stare solo quando conoscerà, e come si arriva alla conoscenza? Con l’informazione. Quindi il ruolo dei giornalisti è fondamentale”.
Un ruolo che Maria Grazia Mazzola definisce civile, “il servizio al cittadino nella ricerca della verità e delle informazioni, che devono essere rese pubbliche. Quando noi non pubblichiamo la verità, quando noi non scriviamo, non abbiamo il coraggio di dire, di raccontare, di denunciare, il Paese rimane al buio. E rimangono al buio le periferie”.
Da qui l’appello della giornalista, partendo proprio da Bari: quello di accendere i fari, principalmente nelle periferie del Paese. “A Bari – racconta Mazzola – c’è un capannello della legalità che è il Redentore dei Salesiani: dei preti di strada stanno facendo un lavoro straordinario con i ragazzini, e stanno facendo un lavoro di formazione alla legalità e all’onestà che documenteremo prossimamente nello Speciale TG1. È un lavoro importante, perché là i clan sono molto forti e vanno a reclutare i figli della povera gente per lo spaccio e per le estorsioni. Attenzione, Stato, apri i tuoi occhi”.
“All’indomani dell’aggressione fisica che ho subito ho detto pubblicamente: «Facciamo crescere alberi lì dove sono state fatte le ferite», cioè che lì dove ci sia un’aggressione, una violenza, una minaccia, possiamo invece aprire un focus di legalità e trasformare quella realtà illuminandola, informando, perché la mia attenzione, la mia preoccupazione è per i cittadini, per i ragazzi giovani di quella città”.
Società civile e religiosi fianco a fianco contro la mafia? Sì: “Qualche giorno fa, quando ho avuto l’onore di andare in udienza privata – racconta Borrometi –, Papa Francesco mi ha detto con grande fermezza «I mafiosi non sono cristiani»: c’è questa netta presa di posizione, anche con il documento dei vescovi siciliani, che è fondamentale. Perché loro, i mafiosi, quei simboli li utilizzano per il male. Le stesse processioni che addirittura omaggiano le abitazioni dei boss o dei parenti dei boss, sono segnali”.
“Ecco perché – ha concluso – sono d’accordo con Maria Grazia quando parlava di illuminare quei covi, i covi dei boss: questa è scorta mediatica, non nei confronti dei giornalisti minacciati, ma nei confronti dei territori che hanno bisogno”.
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