Quarta puntata
// Relazione di fine mandato della Commissione parlamentare antimafia sulla sacra corona unita. Per la Commissione presieduta da Rosy Bindi l’inchiesta del Tacco sul clan Potenza “evoca scenari ancor più inquietanti” di quelli tracciati dalle inchieste della magistratura per il livello di consenso sociale dimostrato nel lavoro giornalistico e perché il boss è ritenuto “contiguo a componenti dell’amministrazione comunale”.
L’allarme sulla sacra corona come “mafia sociale”
Quarta ed ultima puntata della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Come per un romanzo d’appendice, abbiamo svelato pagina dopo pagina (potete leggere qui la prima, la seconda e la terza parte dell’estratto) le caratteristiche dei sodalizi mafiosi che operano, delinquono, spacciano, ammazzano in Puglia, da nord a sud.
Ma, ricordiamolo, questo non è un romanzo: è la storia reale di chi continua ad operare per la maggior parte del tempo nel buio, coperto dal silenzio omertoso di chi non vede, non sente e soprattutto non dice niente, dando mostra di sé solo quando deve ricordare a qualcuno, nemico o sodale, la propria esistenza. Quando spara in mezzo alla gente per dimostrare che gli “sgarri” si pagano con la vita.
Quest’ultimo paragrafo, dedicato alla sacra corona unita e alle sue manifestazioni nel Salento, (dove l’organizzazione è storicamente radicata perché, come indicato dalla stessa Commissione parlamentare, “il disegno di Rogoli – Pino Rogoli, fondatore della scu, ndr – trovò una sua parziale realizzazione più a sud avendo egli investito nella guida dei clan i suoi uomini più fidati”) ci “tocca” particolarmente: la redazione del Tacco d’Italia ha pagato e continua a pagare il prezzo di ogni inchiesta pubblicata, di ogni tassello rivelato. La direttora del Tacco, Marilù Mastrogiovanni, mentre da un lato riceveva riconoscimenti prestigiosi per il proprio lavoro di giornalista investigativa freelance, dall’altro è stata fermata dalla magistratura, attaccata dai suoi stessi concittadini, ha subito e continua a subire minacce, al punto da decidere di abbandonare Casarano, per cercare di preservare la sicurezza della sua famiglia. Ma non si ferma e con lei non si ferma la redazione del Tacco.
Attraverso le parole messe nero su bianco da deputati e senatori della Commissione, ripercorreremo fatti noti, storie già raccontate dal Tacco e già note ai suoi lettori.
Abbandonata l’originaria struttura piramidale e la successiva rigida suddivisione in gruppi, restii a dialogare tra loro e piuttosto pronti a rivendicare ognuno la propria autonomia e a imporre l’egemonia su altri territori delle province salentine, le consorterie che ancora si riconoscono nella sacra corona unita paiono aver scelto, da qualche tempo, una strategia tesa all’inabissamento delle tradizionali attività criminali, all’apparente scomparsa dell’associazione mafiosa, ricercando invece il consenso sociale attraverso attività che, in un periodo di profonda crisi economica, trovano apprezzamento tra i consociati, quali, ad esempio, il recupero forzoso dei crediti da debitori riottosi o l’offerta di posti di lavoro all’interno di aziende “controllate” dalla stessa organizzazione.
Strategia in buona parte agevolata da una sorta di disponibilità della gente nei confronti di questa frange criminali, in assenza di una risposta della Stato non tanto sul piano repressivo quanto su quello sociale, in particolare sul piano del funzionamento dei servizi di primaria importanza tra cui occorre annoverare anche il ritardo della risposta alla domanda di giustizia nel campo civile.
Di talché l’azione delle organizzazioni mafiose appare articolata tra i vecchi e tradizionali ambiti criminali e nuovi spazi d’intervento non più limitati ai contesti sociali che in qualche modo già condividevano e fiancheggiavano la metodologia dell’intimidazione, avendo ottenuto un diffuso e inaspettato riconoscimento, da frange della società civile le più disparate, del ruolo regolatore dei rapporti tra cittadini, in sostituzione degli organi istituzionali dello Stato. A riprova di ciò le diffuse manifestazioni di solidarietà della gente comune nei confronti di esponenti della criminalità di tipo mafioso, sintomo evidente del mutato atteggiamento verso gli esponenti di un’associazione che, messi da parte omicidi, bombe e incendi, ha mostrato di sé il lato maggiormente accettabile e “presentabile”.
Atteggiamento conciliante riverberatosi anche nello svolgimento delle attività criminali più comuni, laddove il denaro ottenuto in passato con la minaccia esplicita o implicita nell’appartenenza all’associazione mafiosa, viene oggi offerto “spontaneamente” dalla vittima, forse non più tale, alla quale, in cambio, sono offerti servizi di tipo diverso: dalla tradizionale protezione o al recupero forzoso dei crediti, al finanziamento dell’attività economica, all’annullamento della concorrenza, alla possibilità d’inserimento in circuiti di riciclaggio. Fenomeno agevolato dalla perdurante crisi economica che ha interessato il Paese e che ha avuto, come in tutte le regioni del centro-sud, effetti devastanti in molte aree del Salento contribuendo a spostare il ricorso al credito dal circuito bancario al prestito ad usura, praticato anche dalle imprese finanziarie, talvolta non estranee all’ambiente della criminalità organizzata, spesso di proprietà o gestite dall’insospettabile “vicino della porta accanto”.
Usura ed estorsione appaiono reati strettamente collegati anche nel rimanere nel sommerso in quanto non documentati dal numero delle denunce; i dati statistici appaiono del tutto irrisori a conferma della capacità intimidatoria dei clan mafiosi presenti nei territori delle tre province salentine e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà delle stesse vittime, in una sorta di muta accettazione da parte della popolazione delle regole mafiose e di rifiuto dell’intervento repressivo dello Stato.
Nello stesso solco della ricerca del consenso s’inserisce la partecipazione di esponenti di rilievo dell’ambiente mafioso, e di persone ad esso contigue, alle società di calcio, come è stato riscontrato per alcune squadre della provincia di Lecce (Galatina, Monteroni, Poggiardo, Racale, Tricase, Squinzano, Taurisano) nel palese tentativo di ottenere, oltre il consenso, anche la gestione economica di attività che possono costituire canali per il reinvestimento di denaro “sporco”.
Il sostanziale mutamento dei connotati della criminalità organizzata salentina deriva, altresì, dalla perfetta integrazione tra i capi storici dei vecchi gruppi criminali, molti dei quali hanno terminato di espiare le condanne conseguenti all’azione di contrasto e repressione posta in essere da magistratura e forze di polizia negli anni Novanta e gli esponenti della seconda e terza generazione delle famiglie mafiose “tradizionali” assurti nel mentre ai vertici dei clan. Integrazione favorita dal ruolo “storico” e sempre più rilevante delle donne (mogli, madri, sorelle) appartenenti alle famiglie malavitose, sempre attive nella gestione diretta delle attività criminali anche in sostituzione del congiunto detenuto, nel segno della continuità e della sommersione delle attività criminali. A ciò corrisponde una rinnovata attenzione agli equilibri tra i diversi gruppi operanti sul territorio e alla cura nell’appianare eventuali situazioni di contrasto con i clan limitrofi, nella convinzione che la pax mafiosa sia la condizione più conveniente per tutti.
Ciò ha prodotto anche una radicale riduzione degli omicidi. Nel 2016 a Casarano (Le) nel piazzale antistante un affollato centro commerciale, proprio nell’orario di maggiore frequentazione; vittima un noto esponente di uno dei clan storicamente presenti sul territorio. A tale fatto di sangue è seguito, a distanza di soli due giorni, anche un tentativo di omicidio nei confronti del sodale dell’ucciso. Le successive indagini, che hanno consentito di accertare sia la matrice del gesto che i suoi esecutori, nonché di prevenire l’assassinio programmato di un’ulteriore vittima, attestano che il conflitto fosse insorto, tra ex appartenenti allo stesso clan, per il controllo del territorio di Casarano e dei paesi limitrofi, finalizzato a stabilire l’egemonia nel traffico delle sostanze stupefacenti e delle attività economiche svolte in quei centri. E’ stato pure messo in luce come il capo di una delle consorterie mafiose antagoniste riuscisse ad esercitare pienamente il suo ruolo direttivo nell’ambito del clan nonostante fosse sottoposto al regime degli arresti domiciliari nel Nord Italia, avvalendosi di complessi sistemi di comunicazione con i propri sodali operativi nel Salento.
Scenari ancor più inquietanti evocano le dichiarazioni della moglie della vittima, riportate da una testata giornalistica, in ordine al ruolo di “mediatore” del marito nell’ambito della società casaranese, ritenuto contiguo a componenti dell’amministrazione comunale.
Proprio in tema di infiltrazioni nell’apparato della pubblica amministrazione il ripetersi degli episodi di coinvolgimento di amministratori locali in indagini di mafia desta particolare allarme:
– nel 2015 l’arresto del vicesindaco del comune di Parabita per concorso in associazione mafiosa, avendo egli fornito un contributo significativo, con il suo interessamento, all’assunzione di esponenti del clan e di loro familiari. La consequenziale attività ispettiva ha portato nel febbraio del 2017 allo scioglimento del consiglio comunale di Parabita per infiltrazioni mafiose;
– l’assegnazione da parte del sindaco di Squinzano, in totale violazione della relativa normativa, di un alloggio dello IACP di Lecce ad un noto esponente della criminalità mafiosa di Squinzano e la rimozione del presidente del consiglio comunale, ai sensi dell’articolo 142 del TUEL, di quel centro cittadino per la comprovata vicinanza ad esponenti del citato sodalizio;
– l’esito delle indagini sui rapporti tra l’ambiente criminale mafioso e diversi candidati in occasione delle consultazioni elettorali del 2012 per il rinnovo dell’amministrazione comunale di Lecce, laddove è emerso che la gestione dell’attività di affissione dei manifesti e di distribuzione di materiale propagandistico, era coordinata e gestita da appartenenti ai clan attraverso l’esercizio di violenze e minacce nei confronti dei candidati che non intendevano soggiacere alle imposizioni dell’associazione mafiosa e rifiutavano di rivolgersi ad essa; i rapporti con i comitati elettorali e con i candidati, fenomeno noto al capoluogo salentino sin dai primi anni 2000 allorquando le indagini posero in evidenza anche la spartizione tra i clan mafiosi leccesi delle sovvenzioni comunali elargite ad una cooperativa di ex detenuti del tutto illegale, in una sorta di pacifica convivenza con le istituzioni, come dichiarato ai media da un assessore dell’amministrazione dell’epoca.
Ancora in corso l’indagine sui criteri di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale popolare dalla quale, finora, è risultato che sei abitazioni siano state assegnate ad esponenti della criminalità organizzata locale o a loro contigui;
– a Gallipoli, terra del clan Padovano, sono state avviate indagini sui rapporti di alcuni esponenti della classe politica che aveva espresso la precedente maggioranza in consiglio comunale con l’organizzazione mafiosa in auge, allo scopo di ottenere dall’amministrazione comunale talune concessioni per la gestione di parcheggi pubblici;
– a Sogliano Cavour dove le indagini hanno attestato la capacità del gruppo criminale dominante nella zona di Galatina e dintorni di condizionare la vita politica di quel comune e persino di penetrare le forze di polizia acquisendo rilevanti informazioni rilevanti sulle indagini in corso.
Sempre con riferimento a consorterie infiltratesi nei gangli della pubblica amministrazione, nel mese di luglio del 2017, sono state eseguite nelle cittadine del tarantino, Manduria e Avetrana, circa trenta ordinanze di custodia cautelare a carico di un gruppo criminale. Nell’ambito della stessa operazione di polizia sono stati sottoposti a misura cautelare, altresì, il sindaco di Avetrana, un assessore del comune di Manduria, e il sindaco di Erchie (BR), tutti in relazione ad ipotesi di contiguità con gruppi ritenuti mafiosi.
Le mutazioni che hanno interessato negli ultimi la criminalità organizzata presente nel Salento, unite alle potenzialità offerte dallo sfruttamento di nuovi mercati criminali, induce a ritenere che sia fuorviante considerare la “mafia del Salento” come sconfitta e disarticolata per sempre.
Se l’azione di contrasto svolta dalle forze di polizia e della magistratura negli anni Novanta ha potuto avere buon gioco, ciò è dovuto al fatto che essa non era così radicata sul territorio come invece tipicamente lo sono le così dette mafie tradizionali.
Oggi, alla stregua di una rinnovata capacità operativa, i gruppi mafiosi salentini tentano, nel silenzio e nell’indifferenza, proprio questo salto di qualità, annullando in tal modo il differenziale con le realtà mafiose più note e meglio sviluppate.
La dimensione locale del fenomeno non deve trarre in inganno stante lo sviluppo delle attività turistiche e più latamente economiche dell’intera regione. Di talché, se da un lato non può escludersi una sempre maggiore attenzione da parte di chi voglia reinvestire denaro sporco in lucrose attività lecite, dall’altro un assuefatto disinteresse della popolazione alla presenza criminale, l’innalzamento della soglia di tolleranza e la sostanziale accettazione di comportamenti delittuosi dei quali la cittadinanza continua ad essere vittima, senza però più considerarsi tale, costituisce sicuramente terreno fertile per il rafforzamento e l’espansione del fenomeno criminale esaminato. Verosimilmente, in Salento, più che in altri luoghi del Meridione e del resto del Paese, appare necessaria ed urgente un’azione di sensibilizzazione della popolazione che induca ad un radicale mutamento culturale del tessuto sociale, in modo da rompere le radici di un consenso con le mafie locali che si fa sempre più preoccupante.
4/Fine
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