Mafia a Foggia: obiettivi moderni, metodi arcaici

VERSO IL 21 MARZO// Terza puntata: la Commissione parlamentare antimafia parla di un sistema consolidato nel foggiano, dalle molte facce e dalla “faccia tosta” verso lo Stato


Continua sul Tacco d’Italia la pubblicazione della relazione che riassume quasi 5 anni di lavoro da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, presieduta dalla senatrice Rosy Bindi. Potete leggere qui la prima parte, e qui la seconda

Nell’estratto che pubblichiamo oggi si parla di temi che coinvolgono più in profondità il tessuto sociale: estorsione, caporalato, delinquenza minorile. Ma si parla anche dell’impotenza dello Stato, dell’incapacità di sollevare il problema, se non di fronte a episodi particolarmente violenti. “Se un’organizzazione giunge (…) a trasformare una ex caserma dell’esercito in un fortino criminale – sottolinea la Commissione – vuol dire che essa si sente onnipotente e impunita, in grado di andare sfrontatamente allo scontro con le forze dell’ordine”.

 

La mafia operante nella provincia di Foggia presenta delle caratteristiche diverse da quelle del circondario di Bari. Storicamente suddivisa tra “mafia dei montanari”, riferita ai sodalizi della zona garganica, e “mafia della pianura”, riferita alla zona della Capitanata, le organizzazioni mafiose operanti nel territorio in esame, pur presentando tratti analoghi a quelli della criminalità barese, in quanto frammentate e prive di un vertice aggregante, evidenziano una solida struttura interna, basata sul familismo mafioso, tipico della “ndrangheta”, ed una non comune capacità di programmare e attuare strategie criminali, di intessere alleanze sia tra i diversi gruppi operanti sul territorio, sia con sodalizi mafiosi campani e calabresi.

Profilo quest’ultimo conseguente all’azione di contrasto delle forze dell’ordine e della magistratura che ha determinato, nel tempo, necessitati mutamenti negli equilibri di potere con continue aggregazioni e disgregazioni dei gruppi dei quali si compone la “società foggiana”.

La solidità strutturale appare derivare da un’impenetrabilità propria del contesto sociale in cui operano tali gruppi, caratterizzato da arretratezza culturale, omertà e illegalità diffusa, condizioni che, tuttavia, non hanno impedito l’applicazione, nello svolgimento delle attività criminali, di modelli di modernità e flessibilità propri di una “mafia degli affari”, nonostante essa rimanga caratterizzata da metodologie di imposizione delle regole, all’interno e all’esterno dei clan, fondate sulla forza che spesso si trasforma in pura ferocia, con vendette e punizioni mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali e dal modello della camorra cutoliana.

Il risultato è un micidiale connubio tra:

1) modernità e lungimiranza negli obiettivi (dimostrata da una spiccata vocazione agli affari, dalla capacità d’infiltrazione nel tessuto economico-sociale nei centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè l’agricoltura, l’edilizia e il turismo);

2) valori e metodi arcaici e capillare controllo del territorio, ottenuto e consolidato attraverso una lunga scia di omicidi la gran parte costituiti dalla sparizione delle vittime (cosiddette lupare bianche);

3) omertà da parte della popolazione e assenza di collaborazioni con la giustizia;

4) oggettive difficoltà nello svolgimento delle indagini stante la ostile morfologia del territorio (caratterizzato da zone impervie o boscate, da coste frastagliate, non coperte dal servizio di telefonia) che ostacola anche le più comuni metodologie di investigazione.

La storia giudiziaria del territorio consegna all’interprete l’esistenza di tre grosse organizzazioni la cui mafiosità è cristallizzata da sentenze definitive:

– la prima operante sul capoluogo e i comuni del centro-nord della provincia, denominata “società” o “società foggiana”, strutturata in “batterie” che fanno diretto riferimento ad un vertice costituito da personaggi carismatici del crimine locale, ciascuno a capo della rispettiva batteria;

– la seconda operante principalmente a Cerignola e nei comuni del sud Foggiano, denominata “Piarulli-Mastrangelo-Ferraro”, a struttura verticistica e con a capo due fratelli, entrambi residenti a Milano, organizzata su due livelli: “i grandi” e “i piccoli”, ulteriormente suddivisa in “squadre”, stanziate principalmente a Cerignola, che gestiscono operativamente le attività illecite, in particolare il traffico di sostanze stupefacenti;

– la terza, egemone sull’area garganica, denominata “clan dei Montanari”, avente una struttura mista, con modulo di tipo federativo e forte caratterizzazione di tipo familiare, facente capo alle famiglie Li Bergolis, di Monte Sant’Angelo, e Romito, egemoni sui territori di Monte Sant’Angelo e Manfredonia, e alla famiglia Ciavarrella, che opera sulla zona di Sannicandro Garganico.

 

Ad esse si affianca il gruppo lucerino “Bayan – Ricci – Papa – Cenicold’‘ che, pur se non annoverato tra le principali associazioni mafiose, ha con queste rapporti di partenariato che ne preservano l’autonomia operativa e organizzativa.

Un cenno particolare merita la zona di Vieste dove è stata accertata l’operatività di un sodalizio criminale originatosi dalla scissione di altre organizzazioni.

Il territorio è funestato da attività estorsive finalizzate, soprattutto, all’imposizione della guardianìa abusiva, attività particolarmente vantaggiosa stante la vocazione turistica dell’economia locale. Il susseguirsi di atti d’intimidazione e soprusi di vario genere, perpetrati in modo seriale in un clima connotato soprattutto dalla paura, rischia di strozzare l’imprenditoria in una zona che costituisce sicuramente un polo di attrazione per gli affari e in cui la circolazione di rilevanti capitali è legata anche alla realizzazione/gestione di strutture ricettive, spesso, invece, utilizzate, per la posizione strategica fronte-mare, al presidio delle coste, attività strumentale al controllo del traffico di stupefacenti con la vicina Albania, che costituisce, per un verso, l’affare più lucroso e, per l’altro, il trait d’union tra le diverse organizzazioni criminali operanti sul territorio della provincia foggiana.

IL FENOMENO DEL CAPORALATO

Quello del “caporalato”, è un fenomeno criminale che interessa tutto il territorio della provincia di Foggia e che ha assunto dimensioni tali da costituire una vera e propria emergenza a carattere nazionale.

Le indagini della magistratura hanno accertato il coinvolgimento della criminalità organizzata nella gestione dello sfruttamento del lavoro degli immigrati in quanto fenomeno da cui derivano rilevanti introiti economici, resi ancor più lucrosi dalla connessa attività illecita delle truffe ai danni dell’erario e degli enti previdenziali.

Infatti le organizzazioni mafiose s’inseriscono in ogni fase del rapporto lavorativo: da quella prodromica del reclutamento all’estero delle persone da avviare allo sfruttamento, a quelle successive del trasporto e dell’ingresso in Italia delle persone reclutate, della loro allocazione sul territorio e della utilizzazione in lavorazione agricole con modalità tali da costituire vere e proprie forme di riduzione in schiavitù al servizio di imprenditori in rapporti diretti con le stesse organizzazioni criminali.

La riduzione dei lavoratori in condizione di totale asservimento al “sistema” si connota per le disumane condizioni in cui i braccianti sono costretti a lavorare nei campi, a ritmi difficilmente sostenibili per il numero di ore in cui vengono impiegati, in spregio alle più elementari norme a tutela della condizione del lavoratore e con retribuzioni più che misere e, per di più, decurtate delle spese di affitto, di vitto e trasporto. Ma soprattutto per le condizioni in cui costoro sono costretti a sopravvivere, sopportando la sottrazione dei documenti personali di riconoscimento, e la ghettizzazione presso strutture fatiscenti sottratte, di fatto, al controllo delle forze dell’ordine alle quali, spesso, è interdetto l’accesso, e governate, quindi, dai “caporali” spalleggiati dai sodalizi mafiosi i quali esercitano un penetrante controllo sugli ospiti consapevoli del potere ricattatorio da essi esercitato, gestendo essi l’unica forma di sostentamento degli immigrati.

All’interno dei ghetti solitamente si pratica lo sfruttamento della prostituzione ma anche il traffico di sostanze stupefacenti.

Paradossale è l’omertà nel denunciare tali condizioni: spesso ad iniziali accuse hanno fatto seguito complete ritrattazioni. Frequenti sono stati infine i casi in cui, dopo le denunce si sono perse le tracce delle vittime che avevano osato rompere il muro del silenzio.

 

LA CRIMINALITA’ MINORILE

Negli ultimi anni si è assistito ad una maggiore frequenza dell’impiego di minorenni nella perpetrazione di reati di tipo predatorio, con un ulteriore abbassamento dell’età dei giovani autori, spesso ai limiti della imputabilità.

Infatti, molte rapine a mano armata (effettuate con pistole, di regola giocattolo, o taglierini) ai danni di esercizi commerciali, o di passanti, sono state commesse da minorenni tra i 15 e i 18 anni i quali non sempre versavano in precarie condizioni economiche ma che, attraverso il ricavato dell’atto criminale, miravano a soddisfare piccole esigenze personali, tipiche dell’età, spesso sperperando nella stessa serata il denaro così ottenuto. Atti che, per un verso, costituiscono motivo di esaltazione per la sfida alle forze dell’ordine e, per l’altro, motivo di affermazione all’interno del “branco”.

Ad esempio, in San Severo, ove si registra una radicata presenza della criminalità organizzata legata alla “società foggiana”, a febbraio 2017 sono state commesse tre rapine nello stesso pomeriggio. Due degli autori sono stati arrestati, in flagranza di reato, dopo la terza rapina: si trattava di due giovani poco più che ventenni ma i due complici, arrestati il 15 marzo 2017 nel corso di altra rapina in Torremaggiore, sono risultati essere due minorenni, nell’occasione armati di una “replica” di pistola, non proprio un’arma giocattolo.

All’arrivo dei Carabinieri, il minore, classe 2001, ha puntato la pistola contro il carabiniere. Solo la professionalità del militare ha evitato l’utilizzo dell’arma in sua dotazione.

La vicenda delle tre rapine ha avuto un particolare clamore mediatico a seguito dello sciopero della fame effettuato dal Sindaco di San Severo al fine di attirare l’attenzione sulla situazione dell’ordine pubblico in quel comune.

L’ultimo di numerosi episodi è del 4 aprile 2017: un’altra rapina ai danni di una tabaccheria, anche in tal caso commessa da un minorenne classe 2000 e da un giovane classe 1999.

Lo spirito di emulazione, il senso di appartenenza ad un gruppo delinquenziale, induce i giovani a fare, poi, il salto di qualità con il loro inserimento in contesti di criminalità organizzata dove vengono utilizzati inizialmente per compiti marginali, al fine di testarne l’affidabilità (ad esempio per assicurare i contatti tra gli associati, effettuare telefonate o richieste estorsive), per poi farli partecipare a crimini importanti quali gli omicidi.

Tuttavia, la risposta dello Stato non si è fatta attendere, anche per effetto dell’interessamento e delle iniziative di sensibilizzazione istituzionale della Commissione parlamentare antimafia: è stato aumentato il numero di uomini delle forze dell’ordine impiegate su tutto il territorio della provincia di Foggia ed in particolare nella zona di San Severo; è stato elevato, al contempo, il livello di professionalità degli investigatori con l’istituzione del Nucleo Prevenzione Crimine del ROS presso il comando provinciale dei Carabinieri di Foggia e con l’assegnazione di 15 unità specializzate nelle indagini contro la criminalità organizzata, è stato istituito il Reparto Prevenzione Crimine della Polizia di Stato nel comune di San Severo.

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

In conclusione, il caso della criminalità foggiana, impostosi con forza alle cronache di mafia nel corso della legislatura 2013-2018, appare questione che, nonostante il ruolo periferico della città e del suo hinterland nel sistema criminale nazionale, non può essere considerata secondaria. Al contrario, il “fenomeno Foggia” assume un rilievo esemplare, giocando un ruolo di metafora proprio su di un piano generale. Il primo dato di riferimento è costituito dal fatto che la criminalità organizzata ha, a Foggia, una storia incostante e carsica, del tutto al di sotto di quella delle maggiori organizzazioni nazionali. Ha conosciuto qualche fasto provvisorio tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, quando Raffaele Cutolo cercò di espandere il suo regno dalla Campania verso sud, partendo dalla prima provincia confinante della Puglia e dando vita alla già citata società foggiana, come detto sorta di cartello criminale pulviscolare. Tentativo che naufragò presto, insieme con le fortune della sua creatura, la nuova camorra organizzata, che aspirava a diventare in Puglia forza colonizzatrice. Anche nel periodo di egemonia della sacra corona unita il baricentro territoriale di questa consorteria fu, fondamentalmente, il sud della regione, tra Brindisi e Lecce, sulle ali degli sbarchi albanesi e dai traffici con i clan montenegrini. Di talché Foggia, in questo scenario, non giocò ruoli di rilievo, rimanendo sullo sfondo con i suoi gruppi malavitosi, costretti in un ruolo locale e gregario, e caratterizzati, dicono le ricerche, da un elevato livello di dispersione. Stride, dunque, il confronto tra uno Stato dotato di professionalità adeguate, forze dell’ordine e magistratura annoverati come i più attrezzati professionalmente in tutta Europa, contro una criminalità precaria. Da qui le domande. Come è stato possibile che in una Puglia, in gran parte bonificata – sin dagli anni 2000 – nei suoi principali “distretti criminali” brindisini e salentini, sin dagli anni 2000, si presentassero sulla scena dall’altra parte della regione, quasi indisturbate, nuove organizzazioni, sia pure come sviluppo di nuclei precedenti? Perché una criminalità discontinua e dotata di modesto retroterra sociale ha potuto impunemente crescere in un capoluogo di provincia e in una delle più pregiate aree turistiche del Paese? Addirittura presentandosi in due versioni, quella foggiana e quella garganica, a conferma di come essa non possegga una unitaria (e dunque più temibile) identità? Bisognerebbe dedurne che chi doveva generare l’allarme sia rimasto vittima del classico e disastroso pregiudizio secondo cui “qui la mafia non esiste”. Che sia prevalsa un’inclinazione collettiva al quieto vivere.

Conclusivamente, dunque, la rivitalizzazione della criminalità foggiana dopo 35 anni appare, in realtà, un atto d’accusa oggettivo verso la mentalità e gli atteggiamenti degli apparati del law enforcement e non solo loro. Torna la questione, altrove sollevata in questa Relazione, della distanza tra le capacità professionali dei reparti speciali e quelle dei reparti deputati al normale, ordinario lavoro di controllo del territorio, di prevenzione e arginamento delle pulsioni criminali provenienti “dal basso”. Se un’organizzazione giunge, come è successo a Foggia nel giugno del 2014, a bloccare sei accessi alla città con propri mezzi pesanti per effettuare una rapina, o giunge a trasformare una ex caserma dell’esercito in un fortino criminale, vuol dire che essa si sente onnipotente e impunita, in grado di andare sfrontatamente allo scontro con le forze dell’ordine. Atteggiamento tipico, di fronte a uno Stato incerto, delle organizzazioni senza storia, spesso incapaci di un’amministrazione “saggia” della violenza, e che infatti ha caratterizzato anche la sacra corona unita alla fine del secolo scorso. È in questo senso che Foggia diventa dunque metafora di una lunga e diffusa storia d’Italia. Storia di cessione di spazi, di sottovalutazione, di rimozione, d’incapacità di contestare in tempo reale la pretesa accampata da associazioni criminali di esercitare una giurisdizione territoriale alternativa. C’è voluto l’assassinio feroce, dopo un incredibile inseguimento, dei due contadini innocenti testimoni dell’ennesimo delitto nell’agosto del 2017, con il conseguente arrivo in città del Ministro dell’interno perché, dopo anni di basso profilo, la questione foggiana diventasse questione primaria.

Ed è anzi significativo in proposito che un’associazione della società civile come Libera abbia deciso di celebrare proprio a Foggia la giornata della memoria e dell’impegno contro la mafia (riconosciuta con legge 8 marzo 2017, n. 20) nel 2018. Per sottolineare che da sola non bastano le pur importanti visite di esponenti delle istituzioni per stroncare quel che si è lasciato crescere negli anni. E che occorre invece, per riuscirvi, un impegno corale e sistematico, ormai necessariamente di lungo periodo. Foggia non è solo una metafora, Foggia è un banco di prova.

3/continua

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