di Marilù Mastrogiovanni
Hanno pagato i trafficanti d’uomini per arrivare in Italia e sono ripiombati nell’inferno, schiavi di caporali e imprenditori che rappresentano pedine di una mafia transnazionale che fornisce manodopera a costo quasi zero, per raccogliere le arance a Rosarno e in Sicilia, i pomodori a Foggia, le angurie a Nardò.
Oggi la Corte d’assise di Lecce (presidente Roberto Tanisi) ha restituito loro dignità, condannando i loro aguzzini.
Una vera e propria struttura gerarchicamente organizzata e collegata con ganci in Africa, per il reclutamento delle “merci umane”, “human goods”, vengono chiamate.
L’indagine nasce nel 2009 ed ha portato ad una vittoria corale. Di chi ha condannato, di chi ha supportato, aiutato, sostenuto le vittime, degli inquirenti, dei giudici, che hanno riconosciuto il profilo di un reato inizialmente derubricato.
LE INDAGINI
La misura cautelare fu emessa dal gip di Lecce Carlo Cazzella, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce (Cataldo Motta e Elsa Valeria Mignone) e scaturiva dall’attività investigativa denominata “Sabr” condotta dal Ros di Lecce, dal gennaio 2009 al marzo 2010, con ulteriori specifiche attività condotte ad integrazione nei mesi estivi del 2010 e del 2011 e fino al mese di ottobre 2011, a carico di un sodalizio criminale transnazionale, costituito da italiani, algerini, tunisini e sudanesi, operante in Puglia, Sicilia, Calabria e Tunisia, dedito alla tratta di esseri umani provenienti da vari Paesi africani, al favoreggiamento dell’ingresso di clandestini nel territorio nazionale, al loro grave sfruttamento lavorativo ed all’illecita intermediazione lavorativa. I lavoratori extracomunitari venivano costretti ad uno stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù, ed alla commissione di più reati tra cui la falsità materiale ed ideologica e l’estorsione. All’operazione hanno collaborato il Comando provinciale carabinieri di Lecce, il Comando carabinieri Tutela del Lavoro ed il Comando carabinieri Politiche agricole e alimentari, soprattutto relativamente ai contributi pubblici Agea – Ministero Politiche Agricole, di cui hanno beneficiato alcuni degli indagati. Le indagini hanno consentito di documentare come l’organizzazione criminale, attiva a Nardò, ma anche a Rosarno (Reggio Calabria) ed in altre parti del Sud Italia, fosse dedita al reclutamento di cittadini extracomunitari, per la maggior parte tunisini e ghanesi, introdotti clandestinamente in Italia e comunque presenti sul territorio irregolarmente, dal momento che i permessi di soggiorno di cui erano provvisti, erano falsi, poiché rilasciati sulla base di false attestazioni di assunzioni al lavoro. Gli stranieri venivano introdotti in Italia con il fine dello sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie e di pomodori ed erano mantenuti in condizione di soggezione continuativa e, pertanto, diretta alla commissione di più delitti, tra cui quelli di riduzione in condizione analoga alla schiavitù, di favoreggiamento alla permanenza illegale sul territorio italiano di cittadini extracomunitari, di intermediazione illecita e grave sfruttamento del lavoro, di estorsione e di violenza privata. L’attività d’indagine “Sabr” ha di fatto consentito, fra altri aspetti, di far emergere i fenomeni di “riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” e “tratta di persone”, in un contesto criminale transnazionale, che unisce con un unico filo conduttore tutti i responsabili nelle attività delittuose, con compiti e ruoli ben delineati. Un vero e proprio “sistema” criminale, efficientemente organizzato, che nasce e prolifera anche grazie alla “disperata ed obbligata” partecipazione delle stesse vittime. L’attività investigativa ha fatto emergere i caratteri costitutivi di un articolato e complesso “sistema” criminale che si estende da più Stati extraUE alla Sicilia e, da questa, alla Puglia ed alla Calabria. Si è dimostrato, in sostanza, come i lavoratori stranieri venissero impiegati nei campi di raccolta a condizioni pesanti, al limite della sopportazione psico-fisica, e remunerati con paghe al di sotto della soglia di povertà. Parallelamente, le investigazioni hanno messo in evidenza come gli “spostamenti” (dall’estero ed all’interno dei confini dello Stato) dei lavoratori migranti fossero inevitabilmente connesse alle condizioni di lavoro irregolare che, nelle sue forme più penalizzanti, si è espressa nel lavoro para-schiavistico. Le fasi iniziali di insediamento degli immigrati, infatti, erano generalmente caratterizzate dalla condizione di irregolarità tale da “costringere” i lavoratori stranieri ad accettare qualsiasi tipo di impiego pur di acquisire un minimo reddito per la sopravvivenza. È inoltre emerso come la paga oscillasse tra i 22 ed i 25 euro al giorno e l’orario di lavoro fosse mediamente di 10-12 ore al giorno. Una parte consistente del salario, inoltre, andava al caporale e/o all’intermediatore ed il resto era destinato alle spese per la sopravvivenza. In tale quadro di riferimento, le dichiarazioni accusatorie di alcune vittime sono state determinanti per la costruzione dell’imponente quadro indiziario a carico degli indagati, ovviamente in parallelo con le plurime ed indipendenti acquisizioni investigative.
LE CONDANNE E LE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE
Undici anni di reclusione a Pantaleo Latino, detto “Pantalucci”, 59 anni di Nardò, che tenuto i contatti con chi reclutava la “merce umana”, cioè Saber Ben Mahmoud Jelassi, anch’egli condannato a undici anni.
Livio Mandolfo, 50 anni di Nardò, e Giovanni Petrelli, 54 anni di Carmiano, condannati a 11 anni: quest’ultimo faceva da tramite tra gli imprenditori e i migranti schiavizzati.
I caporali erano Ben Abderrahma Jaouali Sahbi, 47 anni, detto “Giuseppe il tunisino” o “Sabr” o “Capo dei capi”, da cui prende il nome l’indagine; Bilel Ben Aiaya, 33 anni; Saed Abdellah, detto Said, 30 anni; Meki Adem, 56 anni; Nizqr Tanjar, 39anni; Tahar Ben Rhouma Mehadaoui detto Gullit e Mohamed Yazid Ghachir, condannati a 11 anni.
Marcello Corvo, condannato a tre anni ma assolto dall’accusa di riduzione in schiavitù. Assolti Salvatore Pano; Corrado Manfredi e Giuseppe Mariano, di Scorrano.
Si è costituita parte civile la Regione Puglia, la Cgil, la Flai Cgil, la Camera del lavoro, l’associazione Finis terrae, oltre a nove braccianti tra cui Yvan Sagnet, a capo dello storico sciopero dei braccianti schiavizzati a Nardò, poi eletto deputato tra le fila di Sel e diventato giornalista e scrittore.
All’epoca sollevò non poca indignazione la scelta del Comune di Nardò di non costituirsi parte civile. Dalla storia fu tratto un film.
Le vittime furono supportate dal progetto Libera diretto da Ines Rielli e poste sotto tutela con il programma riservato ai testimoni di giustizia, così come le donne vittime di tratta.
Oggi quel progetto, finanziato con fondi ministeriali del Dipartimento per le pari opportunità è inspiegabilmente chiuso. Il supporto alle vittime di tratta, schiavitù e caporalato affidato dalla Regione Puglia a cooperative confessionali. Così, nel disinteresse di tutti, si consuma un’altra vergogna.
QUI LA STORIA DELLE INDAGINI E DEL PROCESSO
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Marilù Mastrogiovanni
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