//Reportage: a bordo del pattugliatore veloce Barbarisi della Guardia di Finanza. Otto studenti, due docenti, 18 militari. Braccando un trafficante col mare “burrasca in corso Sud est 7”, tutta la notte
Fotoreportage a cura dei praticanti giornalisti del Master di giornalismo dell’Università di Bari: Annarita Amoruso, Graziana Capurso, Maila Tritto, Davide Impicciatore, Luca Losito, Vincenzo Murgolo, Tommaso Felicetti, Paolo Cocuroccia
di Marilù Mastrogiovanni
Il terreno balla sotto i piedi, ora, si.
Sono le 6.15 e scendiamo sulla banchina del porto di Bari per fare una foto di gruppo con tutto l’equipaggio. Il cemento diventa un tappeto elastico. “L’essere umano si adatta a tutto”: è stata la frase che più di ogni altra hanno ripetuto stanotte, i miei compagni di viaggio. E io mi sono adattata a quel mare “burrasca in corso Sud est 7” che tra Otranto e l’Albania verso le 4 di notte è diventato un muro. Mi sono adattata al punto che ora, si, la terra ferma mi dà le vertigini.
Disposti in gruppo i 18 uomini dell’equipaggio del pattugliatore veloce Barbarisi sono un bel colpo d’occhio con le loro tute da navigazione verde muschio e giallo, i berretti blu con la visiera e i volti sorridenti.
Sono imbarcati da 20 giorni, senza vedere le famiglie, dormendo quando possono e mangiando quando devono. Perlustrano il canal d’Otranto partendo da Bari, alla ricerca di trafficanti d’uomini e di droga. In questo periodo soprattutto marijuana albanese.
“Dovere”, “passione”, “adrenalina”, “famiglia”, sono state le altre parole che stanotte ho ritrovato nei loro racconti, tra un cambio e l’altro del registro della narrazione, che oscillava come quelle onde nere che sentivamo sbattere sotto la chiglia, tra picchi di entusiasmo per “il mestiere più bello del mondo” e la nostalgia per il figlio ormai diciottenne la cui infanzia è scivolata via tra le mani, impalpabile come i vapori di iodio che riempiono i polmoni ad ogni spruzzo del mare sulla faccia.
Ci imbarchiamo alle 16.
Maurizio Muscarà, colonnello della Guardia di Finanza fino a qualche mese fa capo del Roan (Reparto operativo aeronavale) di Bari, ora di stanza a Roma, è il nostro instancabile e generoso Cicerone, con Marcello Carrozzo, fotoreporter che si porta addosso l’odore della strada e della salsedine, che è stato il nostro lasciapassare.
Questa notte, se ci dovesse essere un avvistamento, sono pronti a partire da Taranto un altro pattugliatore veloce come quello su cui ci troviamo, e tre “Corbelli” da Gallipoli, Otranto e Brindisi. I cieli sono già sorvegliati da un velivolo che perlustra le acque territoriali e i confini con quelle internazionali con strumentazioni radar e telecamere a infrarosso con termo spettrometro. Sono capaci cioè di rilevare variazioni di calore dell’acqua nell’ordine del decimo di grado, variazioni quali sono per esempio quelle provocate dal movimento dell’elica del motore di un motoscafo.
E mentre parliamo la parola che fa scattare la macchina oleata dell’attacco è “attivazione”.
La sussurra all’orecchio del direttore di servizio capitano Pasquale Caiazza, il comandante della nave, tenente Vincenzo Barbangelo.
Il direttore del servizio interrompe la conversazione tra noi e il colonnello.
“Attivazione”.
Tutto cambia, a quel punto.
I 18 uomini sono ingranaggi di un meccanismo che si muove in sincrono: saliamo sulla plancia di comando.
Lì, le informazioni che arrivano dal radar che è sulla nostra nave s’incrociano con quelle che arrivano dalle altre tre e dall’aereo.
Vediamo tutto, sotto forma di colori e grafici: il cielo, il mare, la terraferma sono letti, interpretati e trasfigurati in linee e segni che sembrano quadri di Kandisky.
La nostra direzione è verso sud. Da Bari dobbiamo scapolare il capo d’Otranto e poi dirigerci presumibilmente verso Corfù.
Per ora sono solo ipotesi: l’orchestra di uomini e mezzi si muove all’unisono e in reazione a quello che fa il trafficante. Senza farsi vedere oppure facendosi vedere per coglierlo in inganno, facendogli credere di stare per fare una mossa, per fargliene fare una a lui. Quella che vogliono che lui faccia.
Me lo immagino un po’ così. Un gioco tra poker e scacchi, fatto di intelligenza, perizia, furbizia. Continuiamo a scendere verso sud e il mare ce l’ha con noi.
La prua picchia forte sulla cresta di un’onda per saltare su quella successiva e il vuoto sotto, tra un’onda e l’altra, non ci riguarda.
Respiro l’adrenalina di questi uomini che si muovono al buio con mosse esperte e mani leggere come se sfiorassero i pallini del brail.
E’ la loro, una velocità che non fa rumore. Si muovono senza scontrarsi mai negli spazi angusti della sala comunicazioni, della plancia di comando, dei corridoi, della sala motori, della cambusa.
Ad un certo punto, eccolo. Un altro colpo di scena. Un altro motoscafo veloce sottocosta italiana che si muove anche lui a buio. Non ha luci esterne accese e si muove veloce ma con cautela. E’ il “sintomo” che fa capire che è un natante da monitorare.
Controlli incrociati con la base a terra e sappiamo subito che è un’altra barca della Guardia di finanza che sta monitorando la costa, pronta ad attivarsi all’occorrenza.
Eccolo il trafficante, ce l’abbiamo.
Dalla plancia di comando, con le telecamere a infrarosso, vediamo tutto quello che fa il gommone di trafficanti che stiamo cercando.
E’ partito dall’Italia e stata andando in Albania a caricare balle di marijuana.
Lo stavano aspettando. Si avvicina ad una caletta che i finanziari chiamano per nome: conoscono la costa italiana, albanese e greca palmo a palmo. Le immagini arrivano dall’aereo.
Noi continuiamo a scendere, intanto il mare s’incazza davvero.
Il pattugliatore veloce da Taranto non riesce a prendere il largo.
Il gommone va avanti e indietro e non fa il carico. Si ferma, tergiversa.
Bisogna prenderlo con le mani nel sacco, perché, visto così, è solo uno che s’è fatto due strisce di coca e s’è fatto un giro.
Possiamo combatterlo se lo conosciamo davvero bene, ne conosciamo perfino la psicologia, non solo il funzionamento della loro organizzazione.
E’ quello che diceva Falcone: conoscere la psicologia dei criminali e dei mafiosi per organizzare una macchina efficiente che li contrasti.
“Ma se lo Stato consentisse la coltivazione della marjiuana per uso personale, non si metterebbero in ginocchio queste organizzazioni”?
Paolo vuole avere anche l’opinione del colonnello, ma questo non è “di mia competenza”, risponde Muscarà.
Davide chiede che cosa dicono o fanno i bambini quandono vengono salvati. “La cosa che colpisce è che cominciano subito a giocare. Significa che la vita va avanti”.
Vincenzo vuol sapere la differenza dei traffici di uomini che passano dall’Albania rispetto a quelli libici.
Il su e giù non permette certo di mettere una pentola a bollire, così ad un certo punto dalla cucina sale in plancia il profumo dei panini caldi, col petto di pollo e insalata. Per i vegetariani tonno. C’è anche un buon Cirò calabro.
Così ci ritroviamo in cucina, già amici, a conversare. Paolo vuol sapere come facciano a star così tanto tempo lontani da casa, figli, famiglia.
“Abbiamo due famiglie, questa e quella. Ma con questa passiamo tutta la vita”. A parlare è Domenico Ruffo, che dal 1993 è in servizio su questa nave. Ha salvato migranti da Lampedusa, alla Calabria, alla Puglia e neanche sa più quanti ne ha strappati alla morte. “A che serve contarli? Noi facciamo il nostro dovere e basta e sappiamo che stiamo lavorando per il bene”. Domenico la mattina ha fatto i biscotti con la ricetta della moglie: un kg di farina, due bicchieri di olio, due di vino rosso e due di zucchero, e lievito per i dolci. Sono buoni davvero! Li farò anch’io. Aveva fatto anche due torte alle carote: una ricoperta da scaglie di cocco, l’altra con pralina di nocciole. Ci ripromettiamo di assaggiarle dopo.
La mascotte è Domenico Piscopo, maresciallo di 26 anni, la sua qualifica è “nocchiero”. Il comandante della nave, Vincenzo Barbangelo, è di appena di tre anni più grande, è tenente ed è uscito dall’Accademia con la laurea in Scienze della sicurezza economico-finanziaria. Di anni Vincenzo ne ha 29, tanti quanti gli anni di servizio del brigadiere capo Cosimo Tomaselli, “ma siamo abituati a lavorare con capi molto più giovani, è normale. L’importante è conoscere e rispettare il proprio ruolo e quello degli altri”, dice Cosimo.
Si assicurano in continuazione che stia bene e mi promuovono come “bella tosta”. Li rassicuro, io, che non è merito mio, ma delle estati d’infanzia passate in motoscafo con mio padre, a volare felici sui cavalloni ugentini. Dicono che un mare così è da “tosti”. Incasso il complimento e la mente visualizza involontariamente le frise inzuppate nell’acqua di mare coi piedi penzoloni sul bordo del motoscafo, che dondola come un’amaca cullata dallo scirocco. Si, lo stomaco è temprato. Così mangiamo il nostro panino bevendo il Cirò.
Quando scapoliamo il capo d’Otranto è ormai chiaro che il trafficante non farà alcun carico, stanotte.
Torniamo indietro e aspettiamo che ci saluti l’alba insieme ai gabbiani del molo del porto di Bari. I cornetti caldi e il caffè nero amaro offerto dall’equipaggio sono un bel ritrovarsi, mentre ogni fatto accaduto stanotte è già Vita vissuta, che ci accomuna con quei 18 uomini. Così entriamo anche noi nella loro narrazione del “ti ricordi quando”, davanti ad un bel bicchiere di Cirò, tra il su e giù del mare nero come l’abisso.
Nell’abisso nero e freddo un motoscafo appare così come un ovale luminoso, dorato, giallo, rosso, con una lunga scia che brilla.
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Marilù Mastrogiovanni
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