“Cose nostre”, come sabbia nella bocca

Di Marilù Mastrogiovanni

Sabbia nella bocca. Quando ce l’hai non devi far altro che sputare finché non hai ricacciato fuori fino all’ultimo granello. Ho visto su Rai Uno la puntata di Cose Nostre dedicata a Paolo Borrometi, e penso che la sua storia, come quella di tanti giornalisti e giornaliste minacciate sia sgradevole ai più come sabbia nella bocca. Nessuno la vorrebbe mai. Così come quelle storie che ci appartengono tanto da essere “cose nostre”, nessuno le vorrebbe sentire. Soprattutto se sono così ben documentate come quelle proposte dalla squadra di Rai 1, che proprio non puoi liquidare tutto con “solite cazzate da giornalisti”: hanno aperto quello scrigno infinito delle Teche Rai, dando un senso alle storie attraverso servizi di tg, vecchie trasmissioni e reportage, ritagli di giornali, incorniciandoli con dati e numeri e frasi, che la grafica stampiglia sui muri, come se quelle vecchie storie fossero rimaste lì, ad aleggiare tra quelle stradine assolate di paesini del Sud, impregnandone l’aria e le pareti scrostate, in attesa che qualcuno avesse voglia di raccontarle. Ma poi, a pensarci bene, chi le vuole ascoltare?

Meglio tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi, tirar fuori la lingua e fare versi rumorosi per non vedere, non sentire. Come fanno i bambini.

Chi mai vorrebbe sapere che Paolo il 16 aprile del 2014, quando aveva appena compiuto 31 anni, è stato ridotto in fin di vita da due mafiosi perché scriveva dei loro affari nella provincia “babba”, Ragusa? Chi mai vorrebbe sapere che gli hanno provocato lesioni definitive alla spalla? E soprattutto chi mai può caricarsi il peso di sapere che Paolo non si ferma, che scrive, ancora e sempre, tutti i giorni, nonostante tutto, sul suo giornale d’inchiesta laspia.it? E che deve rivederli, nel corso del processo contro di loro, dove s’è costituita parte civile, per la prima volta, la FNSI?

La verità è che le giornaliste e i giornalisti come Paolo sono scomodi e sono scomodi di più quando incassano minacce e intimidazioni come pesanti punching ball pieni di sabbia, che non si schiodano, non oscillano. Incassano e vanno avanti.

La verità è che le giornaliste e i giornalisti come Paolo sono imbarazzanti: arrivano alle feste con il loro fardello di vita sulle spalle e chi li vuole vedere. E’ la loro stessa presenza imbarazzante per tutti. Ti ricordano, solo con la loro presenza, che loro hanno detto no, che loro continuano a dire no, che loro hanno la schiena dritta, che loro tutelano il tuo diritto ad essere informato, anche se tu non lo vuoi, anche se non lo sai, ma loro sono lì, e che palle! E pure il sabato sera! E meno male per la seconda serata…

Ricevere minacce, essere picchiato, ti pone dinanzi ad una resa dei conti e ad una scelta: che cosa hai fatto e che cosa vuoi fare. Chi sei stato e chi sei.

Essere minacciato, essere picchiato, ti carica di responsabilità: non conosco qualcuno che abbia scelto di tirarsi indietro. Se lo conoscete ditemelo.

Io vedo fratelli e sorelle e familiari di giornaliste e giornalisti uccisi perché facevano troppe domande, che non solo si son caricato il peso del dolore ma anche la responsabilità di caricarlo di senso per sé e per gli altri.

Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, incessantemente e gratuitamente lavora, dopo averlo fondato, ad Ossigeno per l’Informazione, l’osservatorio permanente sui giornalisti minacciati.

Giovanni Impastato, fratello di Peppino, gira le scuole d’Italia per portare avanti il messaggio di suo fratello: “La mafia è una montagna di merda”.

Paolo è sceso per strada, con Emilia Brandi, e ha incontrato alcuni dei protagonisti delle sue inchieste: pregiudicati, collusi, affaristi della mafia della frutta e della mafia delle plastiche delle serre. Così, semplicemente, gli diceva in faccia come stavano le cose.

Dietro, la scorta vigilava.

N’ciòle còriu”, come si dice dalle mie parti – ci vuole il coraggio vero, quello che risiede nel cuore tanto da far parte davvero di te, della tua carne – per fare quello che ha fatto e che fa Paolo.

“Cose nostre” ha eliminato ogni forma di retorica, di autocelebrazione, di pietismo, di commiserazione nel raccontare la vita dei giornalisti minacciati: ha raccontato Paolo nella sua quotidianità, nella semplicità del fare il proprio mestiere. Non quello di cui si riempiono la bocca (e le tasche) in tanti, lasciando poi un vuoto spinto di contenuti, ma quello che ti riempie la bocca di sabbia. Brutta, fastidiosa, sporca. Che tutti vogliono sputare, ma che rimane lì, perché la puoi solo ingoiare, la verità.

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