Scu, camorra e rifiuti. Se ne parla al Senato

 

Roma. Pubblichiamo l’intervento di Marilù Mastrogiovanni in occasione del convegno che si tiene al Senato sulla libertà di stampa

Roma. Sono Marilù Mastrogiovanni, ho 44 anni, e dirigo Il Tacco d’Italia.info, che ho fondato 10 anni fa. E’ un quotidiano on line che pubblica inchieste investigative. L’editore è una cooperativa di giornalisti che non riceve finanziamenti pubblici. La mia è una storia come tante. Una delle 300 storie fatte di impegno, onestà e deontologia professionale di altrettanti giornalisti, 300, secondo Ossigeno per l’Informazione, che solo quest’anno sono stati minacciati e intimiditi dalla criminalità organizzata, anche con mezzi legali, come la querela, pretestuosa, reiterata. E’ quello che è successo ad Ester Castano, 23 anni, Una delle tante freelance precarie: giornalista di razza del settimanale Alto Milanese, redattrice di stampoantimafioso.it, per i suoi articoli è stata bersagliata per due anni da querele e diffide del sindaco di Sedriano, Alfredo Celeste, poi arrestato per rapporti con uomini della ndrangheta. Il comune di Sedriano, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, primo comune in Lombardia. Ho chiesto ad Ester: vado in Senato a parlare di Libertà di Stampa davanti al presidente Grasso, la presidente Boldini, gli osservatori dell’Onu, che cosa vuoi dire loro? Mi ha risposto: “che io non ho mai voluto far sfoggio delle minacce e delle querele ricevute, rifuggendo etichette e slogan. Se ne parlo pubblicamente è per denunciare la pesante cappa che minaccia la libertà d’informazione, attraverso le ritorsioni sulla nostra categoria professionale”. Ester viene retribuita per ogni pezzo dai 5 ai 10 euro. L’unica proposta lavorativa che ha ricevuto in questi due anni, prevedeva un contratto in cambio di smettere di scrivere di ndrangheta, allontanandosi da Sedriano. Il 18 dicembre inizierà il processo a suo carico per diffamazione aggravata. E questo nonostante tutto quello che ha scritto sia stato provato dalle indagine della Procura. Dalla Lombardia alla Sicilia. Siamo a Siracusa, dove esce La Civetta di Minerva, fatto con pochi mezzi e tanta professionalità. Quella che spinge il direttore Franco Oddo a verificare, carte alla mano, facendo le visure camerali, quello che da tempo si vociferava in città: ossia che il capo della Procura di Siracusa e alcuni suoi sostituti erano in affari con un noto penalista e con familiari ed affini dei magistrati stessi. Trovandosi poi faccia a faccia, teoricamente controparte, a dibattimento. La notizia non è stata ripresa dai giornali locali, che hanno isolato La Civetta. Il giornale e i giornalisti sono stati querelati e addirittura accusati da altre testate giornalistiche, di aver redatto quell’inchiesta per estorcere denaro. E mentre accadeva tutto questo l’allora ministra Severino, chiedeva al CSM, ottenendolo, di disporre con urgenza, il trasferimento ad altra sede del procuratore capo Rossi e del sostituto Musco, per motivi cautelari. Anche la mia storia, è una delle tante. Un giornalismo d’inchiesta fatto con pochi mezzi, scavando sul territorio, studiando i documenti. Mettendo insieme i pezzi del puzzle criminale che è sotto gli occhi di tutti. Ma quando scrivi in provincia, i mafiosi li incontri per strada, vengono a trovarti in redazione, con emissari sorridenti, in giacca e cravatta, e con le buone ti fanno capire che hai superato il limite. Da quando è nato il Tacco d’Italia ci siamo da subito occupati dell’affare rifiuti, cercando di scavare nella zona grigia dei colletti bianchi e dei loro collegamenti con la politica. La nostra fonte principale in queste inchieste, Peppino Basile, consigliere comunale di Ugento e consigliere provinciale, fu ucciso. Aveva annunciato che avrebbe fatto esplodere una bomba mediatica, rivelando fatti scomodi, che non sapremo mai, forse. Movente, mandante ed esecutori probabilmente non saranno mai puniti, perché uno dei due accusati, all’epoca minorenne, è stato assolto in primo e secondo grado per non aver commesso il fatto. Avevamo iniziato le nostre inchieste dal ritrovamento di centinaia di fusti di pcb, una delle 10 sostanze più tossiche al mondo, nella discarica di Burgesi e nelle campagne del sud Salento. La procura scoprì che provenivano dalla Sea Marconi di Torino e che erano stati portati lì dalle ditte della figlia e del genero di Pippi Scarlino, boss della Sacra corona unita, al 41 bis. Attraverso visure camerali incrociate ho scoperto che le aziende della famiglia SCarlino cambiavano nome, sede, venivano registrate in diverse Camere di commercio, ma erano sempre riconducibili alla famiglia del boss. E’ grazie ad Ossigeno che ho capito che quello che mi stava accadendo non era normale e che la mia condizione era simile a quella di tanti colleghi: danneggiamenti alla redazione, i computer rubati, montagne di rifiuti che di notte venivano riversati davanti all’ingresso della redazione. Fino a che la figlia del boss ha rotto gli indugi, minacciando me e la mia famiglia in maniera impunita, via face book. Avevo scoperto che a Casarano, il mio paese, la ditta che per più di 10 anni aveva gestito la raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, raggiunta da interdittiva antimafia, aveva cambiato pelle, con altro nome e nuovi prestanome, aveva vinto il nuovo bando per la raccolta rifiuti, usando gli stessi tecnici, progettisti, colletti bianchi, e che continuava a presentare nuovi progetti, come quello per un impianto di compostaggio In un’altra inchiesta denunciavamo come i rifiuti bruciati all’interno dell’inceneritore Copersalento, provenivano da aziende colluse con la Camorra. Nel frattempo è stato desecretato il verbale di Schiavone che nel 1997 affermava che la Camorra era in affari con la Sacra corona, nello smaltimento dei rifiuti tossici. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta ritiene troppe generiche quelle affermazioni, ha dichiarato che non ci sono gli estremi per l’apertura di un fascicolo, aperto poi dalla procura di Bari. Ha detto che si tratta di ‘fantasmi’ che ritornano. Non sono fantasmi però gli autori delle minacce che subiscono i giornalisti. Che ogni giorno devono decidere se fare il loro mestiere, e rischiare la vita, o smettere di scrivere. Un Paese che permette che i giornalisti debbano porsi questa domanda, vivere o lavorare, non è un paese pienamente democratico.

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