Peppino Basile, da 5 anni chiede giustizia

Ugento. Esecutori e mandanti dell’omicidio del consigliere dell’Idv dopo due processi, di cui uno concluso con assoluzione piena, ancora sconosciuti

Le domande ad oggi senza risposta sono tante. Chi ha inferto le oltre 50 coltellate a Peppino Basile, nella notte tra il 14 e 15 giugno di cinque anni fa? Ben ventiquattro dei 50 colpi individuati dall’autopsia sul corpo di Peppino, affondarono nella carne del consigliere dell’Idv, all’opposizione ad Ugento e componente la maggioranza del consiglio provinciale. La Procura, dopo mille persone ascoltate come informate sui fatti, perizie psichiatriche e anatomopatologiche, accusò i vicini di casa, nonno e nipote, Vittorio Colitti senior e junior. Il primo, un contadino cardiopatico e claudicante (cammina col bastone), il secondo, un ragazzone diciassettenne all’epoca dell’omicidio, buono e mansueto, che festeggiò il suo diciottesimo anno di vita in carcere. Dopo il processo di primo e secondo grado il giovane Colitti ne è uscito pulito, assolto con formula piena. Ma segnato per sempre. E’ evidente che la tesi della Procura (pm Giovanni De Palma) sia venuta meno dalle fondamenta: la testimone chiave, una bimba all’epoca di 4 anni, che avrebbe visto tutto da dietro la finestra di casa dei nonni, dirimpettai dei Colitti, ritenuta inattendibile dalle perizie della psicologa infantile e il cui racconto mal s’incastra con i movimenti di nonno e nipote, così come sono stati ricostruiti dal mosaico di testimonianze e dalle rilevazioni dei cellulari. Un esecutore, Colliti jr, accusato di omicidio in concorso con il nonno, la cui prestanza fisica sarebbe stata fondamentale, per la Procura, per far infliggere dal nonno a Basile i colpi mortali, bloccandolo alle spalle. Mancando però il complice di Colitti senior, perché assolto, chi avrebbe aiutato il vecchio vicino di casa, cardiopatico, claudicante e sovrappeso, ad avere la meglio sul più giovane e dal fisico nervoso, Peppino Basile? E ancora: le lettere tra un collaboratore di giustizia e un pregiudicato mafioso, in cui chiaramente si fa riferimento al “cane”, cioè Peppino Basile, ucciso, ritenute dalla Procura non probanti, così come la testimonianza del collaboratore di giustizia Vaccaro, che ha indicato mandanti e movente, ritenuta anch’essa non veritiera. Sullo sfondo, un paese omertoso, dove l’illegalità diffusa diventa mafiosità. Tante chiacchiere di paese ed un esposto tirato fuori ad arte tolgono di mezzo una voce scomoda che chiedeva giustizia, don Stefano Rocca, che ammette di aver fatto delle avances ad un ragazzo, ma dimostra che all’epoca lo stesso, autore dell’esposto tardivo di più di 10 anni, era maggiorenne. Don Stefano viene allontanato a Brindisi, i suoi cittadini organizzano spedizioni in corriera per esprimere la loro solidarietà, ma intanto si ha l’effetto desiderato: far tacere una voce scomoda che, si legge nella sentenza di assoluzione di Colitti jr, era un osservatore, per conto della Procura, delle dinamiche sociali ugentine, per agevolare le indagini ed avvicinarsi alla verità. Ma è proprio quella verità che dopo cinque anni si è allontanata ancora di più. A meno che, davanti all’evidenza dell’inconsistenza della pista-Colitti, gli inquirenti non decidano di riprendere la strada dell’ipotesi profilata da Vaccaro. E scandagliare le pieghe di quella traccia che porta a speculazioni edilizie su cui stava indagando Peppino Basile.

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