Il baratro delle carceri pugliesi

Intervista a Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe, per parlare della situazione, sempre più drammatica, delle carceri nella nostra regione

Il 10 agosto scorso, su questo giornale, avevamo dato notizia di una grave situazione che si andava profilando nella casa circondariale di Bari (link). Fra proteste di profughi detenuti ai quali era stato garantito un permesso di soggiorno e i picchi di sovraffollamento, aggravati da condizioni igienico-sanitarie al limite, il carcere barese ha conosciuto, durante quest'estate, uno dei momenti più difficili della sua storia. Lo stesso articolo è stato, durante la seduta parlamentare del 6 settembre, spunto per un'interrogazione ufficiale firmata da sei deputati del Partito Democratico e rivolta al ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma (link). In attesa di una risposta da parte delle autorità competenti, siamo tornati a parlare dell'incresciosa situazione con il segretario nazionale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Federico Pilagatti. Dal 10 di agosto ad oggi, è cambiata qualcosa nel carcere barese? Assolutamente a. La casa circondariale di Bari continua, ad oggi, a soffrire condizioni intollerabili. In più, dai 296 posti disponibili, ora siamo passati a 210 perchè la seconda sezione è stata chiusa. Perché è stata chiusa? C'era il pericolo che crollasse. È stata proprio la polizia penitenziaria a richiedere la ristrutturazione immediata. La caduta di calcinacci era diventata troppo frequente e la mancanza quasi totale di igiene la rendeva più simile ad un lager. Possiamo dire, quindi, che nessuno è intervenuto come si sperava. Nessuno ha mosso un dito per risolvere il problema. L'amministrazione è completamente avulsa dalle difficoltà della vita in carcere. La terza sezione, che si trova al piano terra, è arrivata ad ospitare 30 persone in 15-20 metri quadri. La soluzione non risiede solo nella costruzione di nuove strutture: mentre si costruisce una nuova ala, il resto comincia a cedere. È un problema legato alle risorse che non vengano ottimizzate? Anche. Si stanno investendo 20 milioni di euro per ampliare le carceri di Lecce e Taranto. Tuttavia, mentre si spende per tirar su nuove sezioni detentive, nessuno ha mai pensato di manutenere quello che già c'è. A Borgo San Nicola esistono seri problemi strutturali, ma, da quando è stato edificato il carcere, non si è mai intervenuti per cercare di mettere in sicurezza i detenuti. Costruire dal a è quanto di più sbagliato e, inoltre, non risolve un bel niente. Deve cambiare la mentalità di chi amministra, altrimenti tutti quei soldi saranno sempre spesi male. Perché si continua a costruire, allora? Perché ci sono le cosiddette “cricche”. Per la costruzione delle carceri non esistono appalti pubblici. Sono sempre le stesse aziende che, una volta ottenuto il lavoro, guadagnano senza nemmeno svolgere degnamente il proprio compito. In Italia, questo tipo di strutture, sono fabbricate male. Basta vedere come sono ridotti i penitenziari pugliesi. Pensi che a Trento e Reggio Calabria sono state aperte nuove sezioni, ma non sono ancora operative perché manca il personale della polizia penitenziaria. Tenendo conto delle restrizioni economiche, quali sono, secondo lei, le soluzioni reali? Quello che proponiamo da tempo è la depenalizzazione di tutti quei reati che non generano allarme sociale. Se teniamo in galera anche i ragazzini sorpresi con tre dosi di hashish, non riusciremo mai a ridurre il sovraffollamento. Quei ragazzi devono seguire tutto un altro iter. Relegandoli in cella con veri delinquenti, rischiamo di ritrovarli, alla fine della pena, peggiorati e per niente pentiti. Poi, su 68mila detenuti nel nostro Paese, circa 24mila sono stranieri. Se si proponessero degli accordi agli Stati di provenienza dei reclusi, con un piccolo contributo economico, si potrebbe cercare di far scontare la pena a ciascuno nel proprio Paese, non gravando così, in modo massiccio, sulle casse italiane. Un detenuto costa mediamente, compreso tutto, circa 200 euro al giorno: pensi al risparmio che se ne otterrebbe. La settimana scorsa, una sentenza del Tribunale di sorveglianza di Lecce obbligava a risarcire un recluso per le condizioni disumane in cui era costretto a vivere. Può essere un punto di svolta? Non credo. Nonostante la notizia, tra le amministrazioni continua a regnare l'indifferenza. Secondo dei calcoli prudenti, 60mila detenuti in Italia, e 4200 in Puglia potrebbero chiedere di essere risarciti per gli stessi motivi. Quasi tutti. Paradossalmente, sono i criminali peggiori che, dovendo sottostare a regimi di detenzione particolari, non soffrono questo tipo di problemi. Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, pochi mesi fa, ha ufficializzato, con una nota interna, che ad un detenuto bastano tre metri quadri di spazio, e non sette, come previsto dall'UE. Ecco, ammettendo che ne siano sufficienti tre, ci sarebbe comunque una percentuale altissima di persone che vivono in uno spazio al di sotto del consentito. Quanto si accusa la crisi nelle carceri? Molto più di quanto comunemente si possa immaginare. Siamo noi della polizia penitenziaria ad anticipare parte delle spese, dalle traduzioni alla manutenzione dei mezzi. Molti di noi aspettano ancora di riavere i propri soldi. I direttori dei penitenziari non hanno più neanche la possibilità di pitturare i muri degradati. Mentre i dirigenti generali del Dap spendono un milione di euro per le loro auto blu, noi siamo costretti ad utilizzare dei veicoli con i sedili rotti, senza aria condizionata e con gli pneumatici consumati. Neanche le visite di ferragosto dei politici hanno risolto a: sono visite pro forma. Sono tutti pronti ad esprimere il loro sdegno, ma qui, in cella, si continuano a consumare veri drammi. La detenzione dovrebbe, teoricamente, aiutare a correggere; in Italia, chi sconta una pena paga un prezzo troppo alto. Il carcere, oggi, contribuisce solo a distruggere le vite di migliaia di persone.

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