Dentro il campo

di Andrea Morrone

MANDURIA – La prima sensazione, arrivando nei pressi del campo profughi di Manduria, è quella di essere giunti in una sorta di “non luogo”, una specie di circo Barnum allestito attorno alla disperazione di un popolo in fuga. Ci sono i cronisti, i fotografi, i cameramen e tutto il variegato mondo dei mass media in cerca di notizie. Accanto a loro, sempre pronti a raccontare verità assolute, ci sono i politici e i rappresentanti delle istituzioni (dall’ex ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi al presidente del consiglio regionale pugliese, Onofrio Introna; dall’assessore alle Politiche per l’Immigrazione, Nicola Fratoianni, al sindaco dimissionario di Manduria, Paolo Tommasino). Ci sono poi le forze dell’ordine, chiamate a presidiare, non si sa bene in che modo e con quali competenze, un luogo che sembra fatto apposta per consentire agli occupanti del campo di fuggire.

Manduria. Le guardie dei profughi

C’è la rabbia e il malcontento degli abitanti della zona, che presidiano l’ingresso del campo con aria minacciosa e inveiscono contro il Governo che ha “scaricato” in questo loro lembo di terra quei profughi che loro mai avrebbero voluto. Sembra quasi grottesco riconoscere nei loro tratti somatici fattezze così simili a quelle tunisine, tanto che diventa difficile distinguerli. Molti degli stranieri, però, parlano correntemente l’inglese e il francese, loro, invece, esprimono solo in dialetto la loro rabbia e quel razzismo che (purtroppo) fa parte di noi. Niente ronde fortunatamente in giro, forse perché il numero di coloro che lasciano il campo è troppo alto e difficile da contenere. Già, perché nelle scorse ore sono arrivati nella tendopoli jonica 1.716 immigrati giunti da Lampedusa con la nave Excelsior, ma c’è stata anche la fuga di massa.

Manduria. Fuga nei campi

Giungendo da Oria, lungo la strada che conduce al campo, si incontrano già decine di tunisini che a piedi cercano di raggiungere il paese e soprattutto la stazione. In mano una bottiglia di plastica o una busta con dentro un po’ di cibo e qualche vestito di ricambio. Poco dopo le 15, da un varco creato nella fragile recinzione metallica, si assiste a una vera e propria fuga di massa. I profughi lasciano il campo disperdendosi nelle campagne circostanti e facendo perdere le loro tracce. La guardia forestale assiste quasi impotente alla scena, mentre un paio di agenti a cavallo si lanciano all’inseguimento di alcuni fuggitivi: una scena irreale che sembra il set di un film.

Manduria. Guardie a cavallo

Loro, comunque, i tanti tunisini giunti fino a questo pezzo di terra dimenticato, hanno modi gentili, rispondono con un sorriso ai saluti. Uno di loro, Samir, ci racconta la sua storia in un italiano quasi perfetto: “Conosco otto lingue perché in Tunisia lavoravo nel campo del turismo. Sono fuggito perché ora non c’è più a, solo povertà e miseria”. Lui, come tanti altri suoi concittadini, vuole lasciare il campo e raggiungere altri paesi europei. “Sono rimasto due giorni nella tendopoli – spiega Samir –, ma qui ci sentiamo come animali in gabbia. Ora voglio andare via, raggiungere la stazione ferroviaria e proseguire verso il nord dell’Europa in cerca di lavoro. Ho un fratello che vive in Germania”. In tanti, lungo la strada, ci fermano e ci chiedono indicazioni per raggiungere lo scalo ferroviario.

Manduria. I profughi consultano la mappa

Sono almeno due o trecento gli stranieri assiepati nella piazzetta di fronte alla piccola stazione di Oria. Ad assisterli ci sono alcuni volontari che distribuiscono cibo e succhi di frutta, la parte migliore di una terra che conosce ancora i valori dell’accoglienza.

Manduria, La fila per il cibo

Un ragazzo giovanissimo ci mostra timidamente due banconote da 50 euro, una fortuna racimolata in chissà quanto tempo, e ci chiede se saranno sufficienti a raggiungere Ventimiglia. Un altro vuole saper quando partirà il prossimo treno per Taranto e quanti chilometri dista Milano da lì. Un altro di loro, fisico minuto e occhi scuri come la pece, sorride amaro e scuote la testa mentre i suoi compagni di sventura si stringono attorno ai volontari: “Che vergogna – dice con il suo italiano imparato chissà come , non so perché ci comportiamo così, mi dispiace per la gente di qui”. Habib, questo il suo nome, non sogna la Francia o la Germania, semplicemente vuole raggiungere Bologna: “Lì c’è mia moglie che mi aspetta, tra poche settimane avremo un bambino. Mi hanno detto che tra quindici minuti c’è un treno per Taranto, spero di riuscire a prenderlo”. “Ho i soldi per il biglietto – aggiunge con orgoglio”. Sono schegge di vita e di speranza di un popolo alla ricerca di una vita migliore, volti e sguardi che, inevitabilmente, ti rimangono impressi nell’anima. La sensazione, lasciando queste terre lambite dall’ultimo grande esodo che attraversa il Salento, è che quella di Manduria sia stata non una scelta ponderata per fini umanitari ma semplicemente una sorta di meccanismo per “riciclare” i profughi spostandoli da Lampedusa e disperdendoli come sabbia nel vento.

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