di Maria Luisa Mastrogiovanni
14 marzo 2011 – primo giorno
Partiamo con il superfast delle 20. Prima giriamo alcuni ‘appoggi’ nel porto di Bari, con i cartelli Albania-Croazia-Grecia. Il mio speakerato dice: “Siamo al porto di Bari. Qui, esattamente 20 anni fa oltre 10mila cittadini albanesi arrivarono ammassati sulla Vlora. Oggi, come allora, non più albanesi ma afghani, iraniani, curdi, arrivano qui, dal medio Oriente, dal Sud Est asiatico, dal Corno d’Africa’, inseguendo il miraggio di una vita da uomini liberi. Ma come, e a che prezzo, e soprattutto: chi ci guadagna”? Bari – Patrasso. Arrivo alle 11. Non pensavo fosse così doloroso lasciare i bambini per lavoro. È la prima volta che accade e mi sento terribilmente in colpa. Che novità… Cmq sono schiacciata dal senso del dovere (devo fare tutto benissimo, per meritarmi la fiducia che mi danno i miei bambini e Mario a “lasciarmi andare” per lavoro, invece di stare con loro…) e questo mi toglie ogni entusiasmo per la partenza e, perché no, per l’avventura che mi aspetta. In fondo è la prima volta che parto per fare la reporter all’estero… Al porto c’è un albanese che con il retino verde raccoglie dei grossi granchi dal muro della banchina. Li farà col sugo stasera, dice. A me sembra che li raccolga per poi venderli. Non ha l’aria messa bene. I greci sulla nave sembrano appena tornati dai campi e che hanno appena indossato uniformi non loro. Uniformi in gran tiro, con papillon bianco o nero. Scolaresche numerose e composte di ragazzini inglesi. Una bella professoressa indiana con gran pancione al 7 mese li accompagna. Ripete spesso be quiet e hanno sincronizzato gli orologi alle 19 e 7 minuti. Incredibile quanto siano docili. Io alla loro età non l’avrei mai fatto. Birra e panino al bar col mio cameraman Alessandro Matteo (Matteo è il cognome). Non è mai stato sulla nave, è preoccupato ma sta bene. Chiedo subito connessione wireless: invio pezzo al mio caposervizio del “Sole 24 Ore”; invio mail al capo dell’Europol Harvey (è all’Aia) che vuole l’abstract del documentario per fissare intervista al mio ritorno. Leggo la mail di un collega che mi inoltrava quella di un europarlamentare: è appena uscita un’indagine di una Ong europea che parla dello schifo che accade sulla frontiera greca, dove stiamo andando noi. È la conferma che siamo sulla pista giusta: a Fylakio, il detention center dove dobbiamo andare ci sono migliaia di persone stipate in un recinto, non è neanche un carcere, senza bagni, senza assistenza sanitaria, e senza alcuna tutela. Ci sono anche neonati. Non ci vogliono far entrare, lo so già, ma ci proveremo. Poi col mio iphone chiamo l’interprete greco – italiano che domani mi aspetta a Patrasso e le mando un sms: le Autorità voglio l’interprete greco! E sempre col mio iphone rispondo ad una mail del mio stringer in Turchia che mi sta organizzando alcuni incontri ad Istanbul. È incredibile quanto riesca a fare con tutti questi mezzi di comunicazione. Solo 5 anni fa non avrei potuto mai organizzare un documentario così in due mesi. La signora che è con me nella cabina ha i capelli cortissimi e bianchi. Ma è giovane. Li voglio anch’io così. Esce fuori a fumare. Il bagno è bello e pulito. Caspita i greci! Anche la doccia e l’acqua calda… e la doccia ha anche la tenda, bianca e morbida, come gli asciugamani di spugna con su scritto ‘superfast’. Ripasso mentalmente quello che devo fare domani. Alle 12 intervista con l’Head of the Authory of Patra, poi shooting without restrinctions in the Port of Patra e poi interviewing the Head of Police department of Patra. Obiettivo: filmare i controlli che fanno sui migranti, sui clandestini, per beccarli nascosti nelle valige, nei camion, ecc.. So che ad un semaforo che è all’imbocco della superstrada per Atene ci sono i migranti che cercano di saltare sui camion, per cercare di venire in Italia. Cercheremo di riprenderli. Ah, sulla nave per Atene tra i 18enni va sempre forte il Toblerone, incredibile! Come 20 anni fa! Ok sto arrivando a Patrasso: sono le 11.21 ora locale. Vado.
15 marzo 2011 – secondo giorno
Scrivo sull’autobus per Atene, prima che la stanchezza abbia la meglio. Sono le 20.28 del 15 marzo. Sarebbe anche il mio onomastico…come ogni anno è mia sorella a ricordarmelo, la mattina: mi chiama per farmi gli auguri quando stiamo per attraccare. Io come ogni anno me l’ero scordato… Bevo greek cofee, poi mi ricordo che fa schifo e chiedo un caffè americano. A Patrasso fa caldo, è primavera piena. Gabbiani e turisti. Con trolley e tutto il resto andiamo verso la sede dell’Autorità portuale: c’è l’intervista con ‘The Head of the authority of Patra’ e ci aspetta la mia interprete greco – italiano, Silvia. Dietro le sbarre della recinzione del porto decine e decine di immigrati che aspettano l’occasione giusta per poter scavalcare: filo spinato e sbarre, ma non servono per impedire il gran salto. Ci provano, li beccano, ci riprovano, ridono, scherzano, si fanno intervistare. Vogliono raccontare chi sono, perché sono lì, un po’ nascondono il viso, poi si rilassano e dimenticano la telecamera. Si aggirano in branchi: c’è il gruppo degli afghani, dei palestinesi, dei nord africani. C’è il gruppo dei minorenni: 16-17-18 anni. C’è chi è lì che aspetta da due-tre anni, di poter saltare la recinzione e nascondersi sotto i camion che partono per l’Italia. L’Italia è il miraggio. Il ponte verso l’Europa. Corriamo verso il nostro appuntamento, siamo in ritardo, ma il capo dell’Autorità portuale è gentile e disponibile. Mi offre un caffè e ne chiedo ‘an american coffee, if it’s possible’. La nostra interprete è italo-greca e parla l’Italiano con l’accento calabro, quando è rilassata. La mamma è di Crotone. Si è laureata in lingue e letteratura spagnola e italiana ad Atene. Ora insegna in una scuola privata e fa l’interprete. Lasciamo i bagagli nell’ufficio del capo dell’Autorità portuale e ci dà il nostro lasciapassare, come abbiamo insistentemente richiesto al Ministero greco. Incredibile: è tra le mie mani. È scritto in greco ma so che possiamo fare riprese ‘without restrinction in the port of Patra’. So che è praticamente impossibile che diano un tale permesso, me l’hanno detto sia dal Ministero sia gli stessi poliziotti, lì al Porto. Infatti incontro due colleghi giornalisti di un quotidiano nazionale (credo si chiami Etnos… non ricordo, dovrei rivedere gli appunti) e loro non hanno il nostro permesso! Però noi ce l’abbiamo e andiamo verso le navi che stanno caricando i tir per l’Italia, per Ancona. Ci imbattiamo in un gruppo di nordafricani che cercano di salire sui tir, i camionisti li cacciano, noi filmiamo tutto. Alla fine si innervosiscono e vogliono vedere la telecamera. Chiamo i due colleghi greci che sono al di là del terrapieno su cui siamo ci troviamo a filmare i tir, chiamo Alessandro che mi raggiunge e ora siamo in quattro. Se ne vanno. Scavalcano nuovamente la recinzione e aspettano. A due passi ancora tir, poliziotti, cani della polizia. Di là dalla recinzione afghani, palestinesi, somali, eritrei, tunisini, algerini. Quando qualcuno scavalca il filo spinato arriva il poliziotto in vespa, strombettando, e loro ripassano la recinzione e aspettano. Alcuni aspettano da anni. Per ridere uno di loro lancia al di qua un pallone, poi scavalca e lo riprende. È un gioco impari. L’Autorità portuale e il Capo della polizia, che intervistiamo dopo, ci danno i dati esatti di quante persone son fuori dal porto, in attesa di imboscarsi sui tir, di quante ogni anno riescono a farlo, di quanti ne prendono, tra clandestini e trafficanti. Anche il Capo della Polizia mi offre un caffè, chiedo un caffè americano e mi guarda con sospetto, mi sembra proprio disorientato. Vuole sapere perché voglio un caffè americano, sembra quasi che sia un’offesa, allora dico, yes, I’m an italian who loves american cofee’, la butto a ridere ma è peggio. Lascio perdere: ‘No non, It’ s joke, dont’worry, tank for the espresso’. Me lo portano e lo bevo. Non sia mai… Almeno 20 poliziotti mi fermano in due ore di riprese, e io sventolo il mio permesso. Sono increduli, ma mi devono lasciare passare. Io e Alessandro filmiamo e filmiamo. Non pensiamo a quello che stiamo vedendo, tanta è la concentrazione per non farci sfuggire a. Neanche adesso, che ho finito l’intervista con il Capo del dipartimento della Polizia di Patrasso, che ho mangiato il primo pasto della giornata (un panino con la cotoletta di pollo, buono!), che sono sull’autobus per Atene, neanche adesso, che sto scrivendo quello che ho visto, penso realmente a quello che ho visto. Lo vedo, lo registro, lo racconto. Non lo metabolizzo. Perché è troppo pazzesco. Una semplice recinzione divide la vita normale dall’inferno. Il Capo dell’Autorità portuale si raccomanda di non avvicinarci ai migranti: vivono allo stato brado da mesi o anni e molti hanno malattie della pelle, infettive. Stanno lì, seduti sui marciapiedi, stanchi, sporchi. Molti non ci provano neanche a scavalcare. Stanno lì e basta. E’ il loro appuntamento quotidiano. Ridono i ragazzini, di 16-17 anni, son lì ancora da poco e possono ancora ridere. Mi chiama Alice e mi canta ‘buon mezzo compleanno’. Mi dice: sono sicura che te l’eri dimenticato. Già. Arriviamo in una stazione del bus in mezzo al a, dicono che dobbiamo cambiare e passare sul treno per Atene. La cortesissima tipa della stazione non ce l’aveva detto: avevo chiesto un ticket per il bus per Atene, non per il treno. Comunque scendiamo, saliamo su un treno/metro e la tipa dello sportello a cui chiedo indicazioni mi dice che devo cambiare ancora per arrivare ad Atene-centro. Io avevo chiesto un diretto per Atene. Vabbè, cambiamo alla maledetta Ani-Alisios (o giù di lì). Sulla metro Aureliel attacca bottone. Parla italiano, ci racconta che lui è albanese, è arrivato in Grecia quando aveva 12 anni, via terra, poi col gommone in Italia, nel ’97, poi di nuovo in Grecia. Ora ha 33 anni. “20 anni di migrazione”, mi dice, e ride. ‘Ormai noi albanesi siamo sparsi dappertutto’. In Albania ha la famiglia. Lavora per una ditta siciliana che scava per il petrolio. ‘Per loro non c’è la crisi, perché lavorano con le banche, non con i loro soldi’. Lui lavora in ufficio, perché parla l’italiano e a loro serve, vive in albergo, a carico della ditta. Good luck. E buon comple-ventennio di migrazione. Arrivo alla stazione di Atene, 7 euro e 50 e il tassista mi porta a Kodrou street, all’Acropolis houses, nella Plaka, la zona vecchia di Atene. La prenotazione l’ha presa Valeria, la cugina Napoli-greca di Maurizio, il nostro (mio e di Mario), caro amico napoletano di origini Genova-ebraiche. Lei vive ad Atene. Stradine di basolato come nel Salento. Però tutto più povero. Chiedo informazioni sul posto dove dovrò fare l’intervista domani alle nove, al Secretariat general oh Human rights. E’ 10 minuti a piedi, vicino al Parlamento. Alle 10, dopo l’intervista, Alessandro finisce il suo ‘turno’ e arriva Andrea, da Vienna, dove han fatto un’altra intervista. Finisco di scrivere questo diario di bordo e lo spedisco alle 2.36 ora locale: sono connessa alla rete wireless dell’albergo vicino. Sono immersa in una rete e in un flusso di informazioni e di persone. Nessuno le può fermare.
16 marzo 2011 – terzo giorno
Ore 7 ora locale (5 in italia): allarm call. Ma tanto ero sveglia da un pezzo. In realtà quasi non ho dormito: cuscino troppo alto (ahi ahi la mia cervicale). E troppe immagini. Sto metabolizzando. Penso che non ho potuto fare delle bellissime foto, perché filmavo. Gli afghani dietro al filo spinato, il Somalo che passa attraverso la recinzione allargata in più punti e risaldata dall’intervento poco efficace del fabbro, mentre a dieci metri tranquillo il poliziotto, in macchina, lo guarda. Il gioco delle parti, tu sai che il mio obiettivo è saltare e io so che il tuo è prendermi. Vediamo chi è più bravo, tu a fare il tuo lavoro io a salvarmi la vita: sarebbe stata una bellissima foto, ma ho le riprese. Penso ai momenti concitati in cui, mentre filmavamo i camionisti che controllavano ciascuno il proprio tir, sono arrivati una decina di nordafricani che avevano scavalcato la recinzione del porto e che cercavano di infilarsi sotto i container assembrati per le partenze, sulle banchine. Al di là della recinzione tranquilli i bar e le persone a prendersi un caffè ‘coreto’, cioè corretto. Penso anche che ho preso troppi caffè americani e alla regola del ‘e bevi questo fottuto caffè’ di Erin Bronkovic. Piccoli fari nella vita relazionale…su cui io e Mario ridiamo sempre. Faccio l’elenco mentale di quello che devo fare domani: ho inviato mail allo stringer in Turchia. L’intervista col Capo della polizia turca è stata autorizzata dal prefetto. Forse per il 21 pomeriggio. E Julia di Medici senza frontiere mi scrive che ci aspetta ad Evros, per l’intervista con il field coordinator di Msf. Poi il Ministero greco mi dice che the Hellenic Police non potrà accompagnarci il 19, nelle perlustrazioni ad Evros. Se possiamo rimandare al 21. Rispondo che no, il 21 devo essere ad Istanbul e se possiamo fare il 20. Chiedo spiegazioni e mando una mail molto contrariata. Ho capito, non so perché, che non vogliono contrariare una giornalista italiana che fa un documentario sull’human tyrafficking e smuggling in the border of Greece. Così io calco sempre la mano. Finora ha funzionato. Domani prendo un cellulare greco e telefono (comunque i greci sono stati bravissimi: il Ministero mi ha praticamente dislocato due persone che in tempo reale rispondono alle mie mail a tutte le ore e mi prendono gli appuntamenti qui). Penso che i poliziotti ieri mi guardavano increduli: mi chiamavo miss miss (ma quale miss, ho due bambini, sono madre di famiglia… ma vaglielo a spiegare che ci fa una madre di due figli a filmare i container e gli immigrati e le operazioni di controllo della polizia portuale). Miss miss, mi facevano segno ‘che cavolo stai facendo’ e io quasi non rispondevo, continuavo a filmare, prendevo il foglio del ‘a osta’ scritto in greco dalla tasca posteriore dei miei jeans fighetti italiani (regalo della mia cara nonna, che ci tiene tanto allo stile, da brava commerciante di moda, e in cui ora sono rientrata, dopo la seconda gravidanza…evviva!) e glielo allungavo, senza smettere di filmare. ‘I have the permission’, ancora non so se la parola è giusta, non ho controllato il dizionarietto giallo di Adolfo (grazie!), ma mi capivano, protestavano e non li cagavo. Avranno pensato che sono proprio una stronza italiana, fottuta giornalista arrogante. Era vero. No, non è vero, solo molto concentrata su quello che dovevo fare e su come farlo. E poi ho capito una cosa, con le mie frequentazioni giornalistiche con le forze dell’ordine (italiane, ma vale in tutto il mondo): comanda solo il capo, e io avevo il a osta del capo. Quindi non c’era bisogno di parlare e spiegare, dovevano capire solo col mio sventolio. Ho anche litigato con un poliziotto che protestava che lo riprendevamo. Spero che non ci abbia rovinato la scena di un arresto di un immigrato che aveva scavalcato la recinzione. Diceva che era un suo diritto non essere ripreso e voleva che cancellassimo la scena. E io dicevo che a me non interessava la sua faccia nel mio documentario, che l’avrei oscurata, che la sua faccia non ha a di interessante e che non è colpa mia se mi è entrato nell’inquadratura mentre filmavamo. Era proprio incazzato, aveva la schiumetta alla bocca e io gli dicevo, senti non mi interessa, chiama il Capo dell’autorità portuale e veditela con lui. Io ti assicuro che taglio la tua faccia. Si è calmato ed è andato via. Questa è l’ora in cui il mio bambino si sveglia e s’infila nel letto, quando non è arzillo e vuole addirittura i cartoni. Ah, e penso che ieri, sulla nave, mi son svegliata e la signora della mia cabina mi ha detto che erano le dieci meno un quarto e io sono scattata come una molla, pensando che mancava un’ora all’attracco della nave e a come avessi potuto dormire tanto, cullata dalla nave… Invece erano le dieci meno un quarto ora locale, la nave sarebbe arrivata all’una (le 11 italiane). E io mi ero svegliata solo 15 minuti in ritardo per la scuola dei bambini. Ero ancora in tempo per fare la colazione, preparare gli zaini e le merende, lavarli e profumarli. Ma oggi l’avrebbe fatto il loro papà.
16 marzo 2011 bis
Oggi è il primo compleanno della mia unica nipotina e io c’ero. Alle 8 quando esco dalla camera Alessandro è pronto ad aspettarmi. La signora mi chiede se voglio un caffè e rispondo no grazie. Fa la faccia stupita (sul comodino c’è un cartello che dice che il caffè è gentilmente offerto dalla direzione). E pigliati sto caffè, Marilù. Ok an american coffee. Ancora stupore. Si, sono italiana e mi piace il caffè americano che qui si chiama french coffee, ma è Nescafè. No, non voglio bread né jam grazie. Alessandro si sta spalmando il panino voluttuoso di marmellata, ma gli dico che son le 8 e 20 e che dobbiamo andare. La capa del Segretariato generale di Genere, che dipende dal Ministero dell’Interno ci sta aspettando. Incarta il suo panino cosparso di sesamo e corriamo via. Ha pronte tutte le informazioni per tornare a Patrasso, perché dopo l’intervista deve correre a prendere taxi e bus per Patra. Poi magari se ci riesce potrà fare le riprese ai palazzoni sul lungomare occupati dagli afghani. Corriamo, chiedo informazioni ad un tipo della security sotto l’albergo che ha l’alito puzzolente di fumo di sigarette. Trattengo il fiato, grazie, ho capito, vado. Mi chiama Demetrio, il mio interprete greco-italiano di oggi, che mi aspetta già. Arriviamo alle nove meno un quarto: Demetrio è sorridente con cravatta, capelli brizzolati e codino. Ha quattro figli ed è nonno di una bimba di due anni. La moglie è di Foggia. Saliamo al settimo piano dove devo incontrare the Secretary General for Gender Equality. È una bella signora alta e gentile. Ancora caffè, e dolcetti al sesamo greci. Cominciamo l’intervista e mi spiega che il motivo per cui l’abbiamo spostata dalle 12 alle 9 è perché oggi inaugurano alle 12 il primo sportello della Grecia con un numero verde 24 ore su 24 dedicato alle donne, per denunciare la violenza in genere e in particolare quella tra le mura domestiche. Ci sarà il viceministro dell’Interno. Ok allora, rimango e faccio anche il servizio delle 12. Mi spiega che secondo lei per arginare il fenomeno dell’human traffickig, dello sfruttamento delle donne per scopi sessuali, dello sfruttamento delle donne sul lavoro, servirebbe una rivoluzione culturale. Un ‘nuovo patto di genere’, ‘un nuovo patto tra i generi’, perché finché ci sarà un mercato del sesso e del lavoro nero, ci saranno uomini che costringeranno delle donne a farlo. Intervisto il viceministro, che è una viceministra, una bellissima donna, alta, magra, bionda. Una specie di Carfagna ma con qualche merito in più, pare. Cioè è Ministra perché è brava, dice Demetrio, non ci sono robe di sesso alla Ruby. Ho l’impressione che sia poco concentrato nella traduzione: la Ministra è troppo bella. Qui mi sfottono quando dico che sono italiana: ‘ah Berlusconi, Gheddafi, Ruby’. Pensa te. Pure i greci ci sfottono, che stanno ai piedi di Cristo. Atene è ferma agli anni 50. Così almeno immagino le città italiane negli anni 50. È rumorosa, sporca, polverosa, una specie di casbah+ il mercato dei polacchi di Lecce. Al settimo piano tutte donne: ho bisogno del wireless e Martina, una psicologa del Segretariato generale del Ministero, specializzata in human trafficking, mi dà il suo ufficio, il suo pc, il telefono. Così dopo l’intervista mi fermo a rispondere alle mail del mio stringer in Turchia e dei due tipi del Ministero che mi tengono i contatti con tutti i dipartimenti e che mi organizzano tutte le interviste ufficiali. Uno in particolare mi sta organizzando le uscite al confine, a Evros, al seguito della polizia ellenica e del Frontex. Finalmente posso chiamare, dal telefono di Martina. Mi risponde una bella voce di ragazza, squillante. Così scopro che i due tipi efficientissimi del Ministero che mi hanno fatto avere i permessi per girare nel porto di Patrasso, tutti mi confermano che è una cosa che non danno a nessuno ed è una super esclusiva, sono due donne. Mi sembravano nomi da uomo (che ne so io, in greco…) e ho fatto tutto via mail. Sono troppo contenta di questa scoperta, di aver parlato con loro al telefono, glielo dico e anche loro sono contente di sentirmi, dopo più di un mese di mail quotidiane e serrate. Demetrio e il suo codino sono esterrefatti: lo dice, anche. Non pensava che la Ministra mi concedesse così, senza preavviso, un’intervista esclusiva sul trafficking, che qui fossero tutte donne, che mi dessero addirittura un ufficio per lavorare. È stupito ma dice che per lui l’eguaglianza non esiste, perché, lui, rimane un cavaliere. Fa un po’ di confusione, ma che vuoi, sorrido e lascio perdere. Mostro i miei bambini sul telefonino e si stupisce ancora di più: sembra che dica che ci fa qui questa con due figli a casa… Vuole sapere se ho un marito e si rassicura. Così mi inquadra in una ‘normalità’, sebbene eccentrica. Negli occhi gli leggo che pensa ‘che fa sto marito, che ti lascia andare qui, ma non lo dice. Chiede solo se anche lui fa il giornalista. Come dire: solo tra di voi potete capirvi, ste stranezze. Lascio tutte le amiche del Segretariato generale sull’eguaglianza di genere, ringrazio la Ministra, mangio due dolcetti e vado giù a comprare una scheda telefonica greca. Do la carta d’identità e mi chiedono il nome di mio padre. Sorry? Father’s name. Ah, ho capito bene. Scuote la testa e mi spiega che qui ancora bisogna dare il nome del padre, per essere identificati. Ah. Ma vale solo per le donne? No, anche per gli uomini. Almeno in questo, uguali. Vabbè, glielo do. Ho il mio telefonino greco con cui posso chiamare tutti i Ministeri e chiamare tutti per farmi dare i permessi precisi per girare al confine con la Turchia. Torno in albergo e Carlo e Andrea appena arrivati, stanchi morti, di ritorno da Vienna, dove hanno fatto l’intervista alla tipa dell’Osce, si mettono in moto. Dobbiamo incontrare un’avvocata che difende gratuitamente i migranti. Mentre andiamo passiamo davanti al Politecnico. C’è un presidio di afghani che da oltre 40 giorni fanno lo sciopero della fame per avere l’asilo politico. Sono accampati davanti al Politecnico con le tende, le brandine, gli striscioni. Fino a pochi giorni fa erano 300 ora sono in 92. Giriamo delle belle immagini, facciamo interviste. Riprendiamo la strada verso la nostra avvocata. Una tipa tosta sulla cinquantina, anche se ha l’aria dimessa. Fa parte di un’associazione di sinistra che difende i migranti, fanno manifestazioni, picchettaggi, sono stati arrestati dalla Polizia per la loro attività. Mi rendo conto che tutto ciò che è tutela delle persone è roba da donne. Un recinto, alla fine, anche questo. Forse perché la cura della persona, anche quando si tratta di questioni statali, è sempre delegata alla donna. Forse perché a noi interessano di più questi argomenti. Forse semplici coincidenze, ma mi piace pensare che il primo compleanno della mia nipotina io l’abbia trascorso qui a pensare a come le donne possono con le donne costruire un mondo migliore. Un piccolo regalo dalla zia, dalla Grecia con amore.
17 marzo 2011 – quarto giorno
Ore 7.05. In Italia sono le 6. Festa nazionale in Italia, bambini dai nonni. Chissà come è andata la nottata con Cosmo… se ha dormito ‘sul’ papà, come fa sempre, ma solo in mancanza della mamma. Oggi intervista allo Spokesman of the Hellenic Police e al Head of Social Intervention Division of the National Centre for Social Solidarity. Bistecca di ieri sera buona. Primo pasto caldo da quando son partita. Nel ristorante sotto l’alberghetto nella Plaka. Suggerita dal proprietario dell’albergo. È lo stesso che ieri mattina mi ha dato il buongiorno dicendo che la signora della reception è stupida perché è blond. Lei non sa una parola d’inglese, e le dispiace molto. E imparalo, le dico. E mi risponde sto tizio che origliava tutto il nostro tentativo di conversazione: che ci vuoi fare, è blond. Lei non si arrabbia, ride, sembra essere il loro scherzo. Chi è questa specie di uomo? Le chiedo, sapendo che lei non capisce ma lui sì. È il proprietario dell’albergo, appunto. E io che sto andando a fare le interviste al Segretariato generale per l’equità di genere. Che io continuo a tradurre con ‘pari opportunità’, invece Demetrio mi dice che la parola pari opportunità in greco non esiste. È proprio ‘uguaglianza di genere’, che devo tradurre. Non esiste l’espressione ‘pari opportunità’, perché sono ad un passo precedente. Perché ora si sta riflettendo sull’‘uguaglianza’ nelle leggi, poi la lotta per le ‘pari opportunità’ avverrà dopo aver ottenuto l’uguaglianza. È un passo successivo. L’avvocata di ieri ci ha dipinto un bel quadretto di Atene. Ce l’avevano detto tutti: quartieri-ghetti a due passi dal centro, dove siamo noi, sotto al parlamento. Ci conferma che c’è quel parco dove gli immigranti sostano qualche giorno per incontrare i trafficanti. Non sa a di questa bus station che cerco, dove mi hanno detto che ci sono i trafficanti ad aspettare i migranti, tipo spacciatori fermi al palo. Però a partire da piazza Omonia ci descrive un bronx violento e brutale, fuori dalle regole. Non c’è greco che non sia stato derubato, anche minacciato col coltello, andando lì. Una volta erano in 15 loro, tutti avvocati, ed erano stati lì in una piazza a manifestare per i diritti degli immigrati, finito tutto, li hanno circondati e spogliati di tutto, tranne i vestiti, minacciati col coltello. Questo in pieno giorno. Non conviene andare lì. Poi c’è un quartiere degradato con case abbandonate o diroccate, dove negli anni passati i migranti venivano spediti lì dai poliziotti: andate lì che trovate una sistemazione. La sistemazione sono case sventrate, senza doccia, mobili, a. Dove pagano un affitto a ore per dormire. Ogni 8 ore un cambio di sonno e via gli altri, senza soluzione di continuità, giorno e notte, dormono a turno, perché non c’è spazio, non hanno case. Poi ci racconta del carcere dove vogliamo andare, a Fylakio, a Evros, dove stanno in 20-30 in celle di 3×3. Anche lì dormono a turno: chi è piedi lascia dormire gli altri che si possono distendere sul pavimento. Lei difende i diritti dei migranti con rigidità: fa poca distinzione tra lo scafista e l’immigrato che l’ha pagato. Sono entrambi vittime, perché sono entrambi due poveracci, lo scafista è l’ultimo anello di una catena. Sì, anch’io la penso così, ma io sto cercando l’origine della catena. Chi riesce a collegare un anello all’altro e a non perdere il controllo né di dove la catena resta legata, né della direzione in cui viene lanciata, né del flusso di denaro che ci scorre attraverso e lungo di essa. Gli afghani che abbiamo intervistato ieri al Politecnico dicono ‘mafia’, ‘mafia’. Avevo dimenticato che è una parola italiana. Non esiste la traduzione. Bistecca e tzatzichi e passeggiata fino al parlamento (tipo 300 metri), guardiamo il cambio della guardia, i militari che fanno quell’assurdo balletto (devo cercare le origini, ma ora che mi son fatto cambiare stanza perché quella di ieri era vicino alle cucine e c’era casino, il wireless dell’albergo vicino non riesco a captarlo, mannaggia). I militari non mi sembrano tanto greci: hanno veramente la faccia da afghani. L’aveva detto, Demetrio, che tolgono i lavori ai poveri greci…e che ora tutti i lavori sporchi li fanno loro. È una lotta iniziata con gli albanesi e gli stipendi da allora si sono abbassati di 2/3. Cercavo di portarlo sul discorso della crisi, della bancarotta della Grecia, ecc. ma a: la colpa è degli immigrati. Lui ha la soluzione: bisogna usare le armi. Cioè in che senso? Sparare alle frontiere. Sparare quando li vedi arrivare. Non ha senso intavolare una discussione su questo: lascio cadere il discorso. Torniamo verso l’albergo. Finalmente il cervello si sta arrendendo e sente la stanchezza. Io e Andrea optiamo per un camera-car domani.
17 marzo 2011 bis
17 marzo ore 19 Stamattina pioveva. Foschia e pioggerella. Ho il cappuccio. No problem. Pane nero col sesamo, buono. Sempre il solito Nescafe per cui Andrea protesta. Dice che lui a colazione non mangia a, poi invece spazzola tutte le olive nere all’olio offerte dalla casa. Prima intervista buona. L’ Head of Social Intervention Division ci dice che da settembre il Governo con una nuova legge dà loro maggiori responsabilità per la tutela e l’assistenza delle vittime del trafficking, ma ha diminuito i fondi a loro disposizione. Un bel controsenso. Visitiamo le case delle donne che sono sotto il programma di protezione sociale, in anonimato, per fuggire dai loro aguzzini. C’è un bimbo che dorme nel passeggino. Sono quasi tutte donne con figli piccoli. Ci sono gli stendini con le tutine stese ad asciugare. Corriamo a prendere un taxi perché oggi c’è general strike dei mezzi, tranne la linea blu. C’è un traffico infernale. Alla sede del Ministero della pubblica sicurezza, dove c’è l’ufficio dello Spokesman of Hellenic Police, ci sono una serie di passaggi da fare tipo in aeroporto. Al settimo piano ci stanno aspettando. Questa volta devo rifiutare il caffè. Non ce la faccio più (l’ho preso anche all’appuntamento prima), ma all’acqua non posso proprio dire di no, perché insistono. Vada per l’acqua. Il tipo che intervistiamo ha pronti per noi tutti i dati che avevo chiesto nel framework che su richiesta del Ministero gli avevo già inviato dall’Italia. Tutto fila liscio, anche se c’è un tipo col fiato sul collo di Andrea che controlla tutte le inquadrature, anche per vedere che non registriamo quando il capo non se l’aspetta. Suvlaki col nostro Demetrio nella Plaka. Andrea no onion no garlic. E giù dissertazioni sulla digestione. Come dice Karen, la mia amica belga: gli italiani conversano sempre sui loro intestini… Vado a pagare e il proprietario del locale si meraviglia molto: come, una donna con tre uomini? Si, pago io. È sicura? Si, certo. È preoccupato: ma non è che poi si arrabbiano? No, tranquillo. Ma come mai? Io sono il capo, è un viaggio di lavoro. Ah ok, che fortunati. Un secondo dopo ci ripensa: oddio, non so poi se sono fortunati. Per cosa, dico. Ad avere un capo come donna. Non so se sono contenti. È serio, non è una battuta. Chiediamoglielo, suggerisco. Usciamo e lui che è fuori li blocca: ha voluto pagare lei, io non c’entro. Si, si va bene, rispondono i miei. Ok, contenti voi. Li guarda con sospetto come dei mezzi uomini. Il proprietario è stato a Bari per lavoro, mi chiede se sono di ‘lecce-lecce’. Allora sei stato davvero, dico. Si, sono stato a Casarano quando giocava in serie C1. Son venuto col rappresentante della MaxMara, perché lì facevano I vestiti. Bei tempi, vero? Si, mi fa, ma quando c’era Filanto…Alla faccia! Anche qua è arrivata voce. Con Demetrio andiamo giù verso il quartiere del mercato. Con Andrea concordiamo che sembra il Portogallo, con tanto di bancarelle di bacalao. Sembra una città bombardata e ricostruita brutta. Ma non è così. Le case sono state buttate giù perché negli anni 50 il Governo dava finanziamenti solo perché i proprietari lo facessero. È una società multietnica. Ci passa davanti una scolaresca di bambini delle elementari e hanno facce allegre di mille colori. Andiamo alla ricerca di un cavalletto (tripod! grazie dizionarietto giallo di Adolfo!) che si è rotto. Domani dobbiamo fare tutti gli ‘appoggi’ di Atene, prima di fare l’ultima intervista e poi prendere l’aereo. To the border of the Greece.
17 marzo 2011 ter
Ore 2.00 del 18. Ci diamo appuntamento col tassista amico di Demetrio alle 22. Deve portarci nei quartieri-ghetto dove l’avvocata è stata minacciata col coltello. Obiettivo: filmare l’ambiente, gli assembramenti di persone, la degradazione. Facciamo tutto camera-car, ma anche lì c’è da stare attenti, perché se vedono che li filmi s’incazzano e nella macchina sei in trappola, mica col motorino che puoi scappare. Ma l’amico di Demetrio è tranquillo: sa dove andare e che cosa farci vedere: fa il taxi di notte. Senza soluzione di continuità si passa dalla città turistica al ghetto e la beffa è che il ghetto inizia proprio dal municipio. Per strada branchi di extracomunitari di tutte le etnie. Tutti uomini, qualche donna e tutte col capo coperto. I palazzi sono gravemente sgarrupati, i muri con murales senza alcuna pretesa artistica. Più avanti la zona delle prostitute nigeriane, ancora più in là quella dei bordelli. Illegali, ovviamente. Tre lunghe strade e strette, a destra e sinistra piccole porticine con sopra una luce forte, una semplice lampadina, ma grossa o una luce a forma di piccola lanterna. Sono i bordelli. Uno a fianco all’altro. Poi la zona dei locali a luci rosse e quella dello spaccio. In una grande piazza i medici volontari con un’ambulanza distribuiscono gratuitamente siringhe pulite. Fuori ci saranno almeno un centinaio di persone ad aspettare il loro turno. Poi la stazione centrale dei bus, che dovrebbe essere il posto dove, secondo le vittime della tratta che abbiamo sentito, ci sono i traffickers ad aspettare. Torniamo verso l’acropolis per fare la ripresa dell’acropoli di notte. Servono tutti i ‘fegatelli’, come li chiama Andrea, gli inserti video da inserire all’occorrenza nel girato. Gli extracomunitari che con un’ape raccolgono gli scatoloni per le strade, lasciati dai negozi sui marciapiedi. Raccolta differenziata fatta per necessità. Due bisogni che s’incontrano: il ricco che produce e non sa come smaltire il povero che ha bisogno di soldi e sa che quello che butta uno per l’altro è una risorsa. Gli afghani che scaricano cipolle dai camion, gli indiani che puliscono i locali della plaka all’ora di chiusura. Tornando dall’intervista con lo spokesman della Hellenic Police – Andrea ha fatto delle inquadrature ravvicinatissime perché aveva uno sguardo alla Shining – mi fermo a riprendere col mio iphone la manifestazione degli studenti contro l’aumento delle tasse universitarie. Hanno grossi bastoni camuffati da bandiere rosse, sono quasi tutti maschi. La polizia è schierata in tenuta antiterrorismo: hanno tutti le maschere a gas e i fuciloni per i lacrimogeni, manganelli, caschi e protezioni. Che avevo detto: che qui parlano tutti l’inglese? Non è vero. Gli universitari non ne spiaccicano una parola. Torniamo verso la plaka dove andiamo a farci un souvlaki con Demetrio. Gran giro di telefonate dalla mattina con Valeria, che sta verificando se c’è un aereo per arrivare ad Orestiada, vicino al confine con la Turchia, perché da qui sarebbero 14 ore di pullmann. Sempre con Valeria che sta anche cercando un albergo lì, ma c’è una grande manifestazione di volley ed è tutto pieno. Quando Valeria chiama si scusa sempre perché in sottofondo c’è sempre la voce della bimba piccola che strilla o piange. Valeria si scusa, perché le sta sempre attaccata come una cozza. Macché scuse, so perfettamente che significa. Ne ho uno che appartiene alla stessa razza di cozze. Poi con sms con lo stringer turco che mi pressa perché la Polizia di Istanbul vuole un fax con la mia richiesta e la firma per l’intervista al capo. Sono tutto il giorno in giro e non so ancora fare un fax con mio iphone. Così mi aiuta Mario, ma è festa nazionale in Italia ed è tutto chiuso. Mario chiede aiuto a Maurizio che apre apposta l’ufficio e lo spedisce. Non ho una grande struttura di produzione alle spalle, ma ho tanti amici. La mia ‘struttura’ sono loro. Grazie amici.
18 marzo 2011 – quinto giorno
Ore 6 italiane. Potrei svegliarmi alle 9 oggi, perché abbiamo l’ultima persona da vedere alle 13 e dobbiamo fare un po’ di girato al mercato e al parco dove ci dicono che i migranti aspettano i trafficanti. Ma il fuso è sempre sincronizzato su quello del mio bambino, che viene nel letto a quest’ora. Adesso avrei bisogno io di lui, per riprendere a dormire. Oggi andremo al confine, dove a migliaia ogni giorno cercano di passare il fiume che divide la Grecia dalla Turchia. Lì i greci vogliono costruire un muro. Sono convinti che serva a qualcosa ma i migranti a cui lo chiediamo ridono di scherno. Devo tornarci con Alice qui. Se la prendo nella fase in cui sogna di fare l’archeologa… le piacerebbe moltissimo. La notte l’acropoli è una torta di panna adagiata su un letto di merda.
18 marzo 2011 bis
Ore 00.16 del 18. Doccia, fatta, scrivo nel letto del Vienni hotel, ad Orestiada. Valeria l’ha prenotato per me (grazie grazie!) da Atene. Sono sicura che mentre lo faceva la sua piccola cozza protestava per qualche motivo… L’intervista col capo della divisione della polizia ellenica sull’human trafficking è stata ottima. Fanno un gran lavoro e ci ha dato notizie buone da inserire nel documentario. Salutiamo Demetrio e prendiamo il taxi del suo amico che la sera prima ci ha fatto il puttan tour ad Atene. Arriviamo all’aeroporto per il volo delle 18 che Mario ci ha prenotato on line (grazie grazie!). Mi connetto alla rete wireless free riservata ai passeggeri dell’aeroporto e mando una mail al Ministero e una in Turchia. Scopro con orrore che l’aereo dell’Olimpic line è un bimotore ad elica tipo quelli di Indiana Jones. Tutto va bene, ma con Andrea scherziamo sulle pareti di plastica dell’aereo e lui fa un po’ di riprese del decollo e dell’atterraggio. Secondo me sono bei ‘fegatelli’. Arriviamo puntuali e noleggiamo la macchina. Andrea resiste con diplomazia al tentativo di prendere una Panda. Chiede il mio parere ma io sono ideologizzata, ignoro le pecurialità tecniche, odio la Fiat perché industria privata finanziata dallo Stato e quindi mi è facile esprimere un parere. Optiamo per una 206. Chiamo Mario per dire che è tutto ok e parlo due minuti con Alice. Oggi comincio a sentire l’inizio della crisi d’astinenza dai miei bambini. Ci perdiamo varie volte nel a e arriviamo alla frontiera turca. Ma qui è tutta frontiera, non vi preoccupate, semplicemente ci siamo imbattuti in una frontiera vera, col blocco. Torniamo indietro, e scopriamo che stiamo girando in tondo, perché siamo sempre ad Adrianopoli, dove siamo atterrati. È un paese tipo la periferia di San Pietro Vernotico, no, forse peggio. Chiediamo ai proprietari di un market e ci chiedono se dobbiamo andare in Bulgaria. Qui siamo sulla frontiera bulgaro – turca – greca. Beh, ma io mi offendo, come, sembro vestita da bulgara? Vabbè, prendiamo la strada giusta, arriviamo in un paesino che è composto da una sola strada tipo Collepasso, però una Collepasso fatta da casette basse e molto scalcinate. Ci fermiamo davanti a quello che sembra un pub ed effettivamente ci sono dei ragazzi che giocano a carte e bevono. Ma lì non si mangia. Sono divertiti dal fatto di questi tre italiani comparsi dall’oscurità e ci chiedono se vogliamo la pizza. NO, grazie, solo something to eat. Ok là. ‘Là’ è un bar super super fetente di quelli che io e Mario non ci saremmo mai fatti scappare. Già l’avevo indicato: qui si mangia bene la carne (ma mai come quella di Maurizio dell’Arrosteria a Lecce, eh!) … Il bar è gestito dal figlio di 55 che ne dimostra 70 e dalla mamma di 79 che ne dimostra 89. Super buona, la mangiamo mentre i canarini nelle loro gabbiette appesi tutt’intorno ai muri del baretto cinguettano. Merita un video col mio iphone e infatti Andrea lo fa. Poi si fa fotografare soddisfatto in mezzo ai proprietari che sanno qualche parola di tedesco. Noi no, ma ci capiamo. Scherziamo sul fatto che chissà che penseranno che vado a pagare io e chissà che avranno pensato, vedendo una donna con due uomini. Ieri Demetrio diceva che ad Atene se un uomo a cena non ha i soldi per pagare la donna glieli passa sotto il tavolo, perché paghi lui e non gli faccia fare brutta figura. Dissertiamo su varie teorie di ‘genere’ e sul fatto che nel Salento fare la griglia è roba da veri uomini. Arriviamo finalmente ad Orestiada e al Vienni hotel. Cos’era? Una città nel a? Qui ho sei dico sei reti wireless free e sono finalmente to the border of Greece. Ma connessa al mondo. E sorrido.
19 marzo 2011 – sesto giorno – ore 22 in Italia
Appena tornati al Vienni hotels. Doccia e giù a scrivere. A caldo ho bisogno di appuntare tutto. Doveva essere una giornata morta, perché gli appuntamenti erano tutti da fissare. Come tutto ciò che dobbiamo fare da oggi alla fine. Cosmo mi aggiusta la giornata (lavorativa). Perché mi sveglio alla solita ora (le 6, che poi sono le 5 italiane). Vado nella hall dell’albergo munita del mio Mac e del mio iPhone. Il telefono greco ha finito il credito e devo aspettare per la ricarica. Ma non ci sono problemi: posso scegliere tra 6 reti wireless free e rispondo al mio stringer in Turchia, che mi ha trovato dei contatti fantastici sul mar di Marmara. Poi mando una mail al responsabile di una Ong ad Istanbul, a cui chiedo appuntamento. Mando sms di auguri per la festa del papà a Mario e a mio padre. Oggi mi perdo le letterine sotto il piatto del papà, che hanno preparato Alice e Cosmo. Ho raggiunto la saturazione della nostalgia, quella che chiamo autosufficienza. Cerco di non pensarci perché sennò tutto quello che sto facendo perde senso. Cioè so che è importante, ma contemporaneamente è a, di fronte alle letterine che mi sto perdendo. E di fronte alle letterine che mi sono perso, quello che faccio diventa molto più serio, perdo il senso dell’umorismo e non ho alcuna voglia di ‘giocare’. Qui, nessuno è venuto per giocare. Faccio quello che faccio perché lo ‘devo’ fare. Non ho voglia di pronunciare alcuna parola superflua. Le parole, le misuro, e spesso sono in silenzio. Solito Nescafé e telefono a Julia di Medici senza frontiere. Evidentemente iniziano il lavoro presto, perché stanno a Soufli e stanno andando a Fylakio, il detention center dove voglio andare io. Là le condizioni di detenzione delle persone sono bestiali. Non c’è lo spazio fisico per dormire e dormono quando possono e sono stremati, in piedi. Loro stanno andando lì a distribuire medicine e materiali di prima necessità: sapone, dentifricio, guanti, calze, capello, ecc. Sono contenta di vedere Julia, perché sono due mesi che parliamo al telefono e ci scriviamo mail. Ha i capelli rossi corti corti, è con il field coordinator di medici senza frontiere e con Vassilii, che è un medico di 32 anni che si è laureato a Siena e che per questo parla benissimo l’italiano. Giriamo l’intervista fuori dal detention center e poi facciamo un giro intorno: dalle sbarre si vedono le persone ammassate una sopra l’altra, prima salutano con la mano, poi s’incazzano. Ce ne andiamo. Andrea ha fatto delle riprese bellissime. Ci diamo appuntamento con il gruppo dei Medici senza frontiere a Soufli: ci aiutano a parlare con il sindaco, che non vuole il muro che vogliono costruire a Evros, non perché sia contro il muro in sé, ma perché così i migranti invece di passare da lì passerebbero per il suo paesino che, essendo piccolissimo, ne risentirebbe. Spirito di autodifesa e conservazione. Mangiamo con i tre di Medici senza frontiere e il field coordinator, un tipo di 55 anni che ne dimostra 10 di meno, ci racconta la sua storia: è un ex ingegnere di Shell che ha mollato tutto per realizzare il suo sogno di sempre: quello. Ha moglie e due figlie ad Atene, che vede ogni tanto. Anche la moglie lavora alla Shell, ma tra poco anche lei passerà dall’altra sponda: quelli che non si preoccupano né del guadagno né della carriera, ma vedono quel lavoro come un’esperienza positiva per sé stessi e per gli altri, possibilmente. Andrea è entusiasta: ha deciso che lui è uno dei suoi miti. Anche il field coordinator, come tutti gli altri che tra ieri e oggi abbiamo incontrato, ci dice che poco tempo fa è stato lì Fabrizio Gatti, dell’Espresso per fare il reportage che poi è stato pubblicato. Il fantasma di Gatti ci insegue in ogni luogo, lì a Evros: ah, giornalisti italiani? Si, qualche tempo fa altri due, un giornalista e un fotografo. E noi: Gatti? Ah, sì mi pare si chiamasse così… (il congiuntivo è mio, la frase letterale è ‘si mi pare si chiamava così). Mannaggia la miseria… Beh, però a dirla tutta, poi dicono anche che altri giornalisti italiani oltre a Gatti qui non ne sono venuti, quindi alla fine, per me va anche bene. Perché nessuno ha girato un documentario qui. Mentre con Andrea facciamo due appoggi al bancomat di una banca (pensate che non abbia senso? E invece sì, perché la tastiera ha i caratteri greci e poi perché ci serve quell’appoggio lo scoprirete vedendo il documentario…), un bellissimo macellaio che è come deve essere un macellaio, cioè grande e grosso e rosso, con le manone e sorridente, ci invita dentro e ci offre (un attimo, prendo l’agendina e ve lo dico: me lo sono fatto appuntare) …no, ho letto. L’ha scritto in greco e non si capisce niente. Comunque ci offre un vino che sembra una grappa e un salame piccante fatto di pecora e mucca. Buonissimo. Sono due specialità di Soufli e il vino l’ha fatto proprio lui, così come il salame. Dopo il pranzo salutiamo Msf e incontriamo Alba, l’interprete greca-italiana al Vienni hotel. Fantastico accento messinese, come la sua mamma. È disposta ad accompagnarci sul fiume Evros, in un punto in cui è molto basso e si passa anche con le macchine. Chiede aiuto ai suoi due amici, che ci accompagnano. Poi sono disponibili ad accompagnarci anche nella cosiddetta ‘zona morta’ o ‘porta verde’, cioè dove ci sono 12 km di confine tra Grecia e Turchia e vogliono costruirci un muro, ci sono controlli militari a schiovere, Hellenic police+Frontex, è restricted area, non si può filmare né fare foto. Lì i migranti, siccome è una zona pianeggiante e il fiume è molto basso, passano tutte le notti dalla Turchia alla Grecia. Ci bloccano, ma Andrea (grande!) li ha già filmati da lontano. Poi la telecamera grossa rimane in macchina, perché appunto, non si può filmare. Scendiamo e Andrea (grande!) filma tutto col mio iphone (grande Mario che me l’ha regalato a Natale!). Ma proprio tutto. I controlli, il filo spinato, i mezzi pesanti, il fossato, i rinforzi che arrivano da lontano, alla fine della strada, dove c’è la Turchia, le luci in fondo di Adrianopoli, in Turchia. Già questo vale l’andata lì, perché io ho i permessi per girare lunedì in the border, ma c’è anche scritto che nella restricted area non mi avrebbero fatto filmare. Uno dei due amici di Alba è felicissimo di quest’avventura e si offre per il giorno dopo (oggi) di portarci in un altro punto del fiume in cui ora si sono intensificati i passaggi dei migranti, perché lì, nella ‘zona morta’ dove è stato Gatti, siccome si sono intensificati i controlli, ne passano meno. E siccome devono passare, questione della loro vita o della loro morte, hanno ovviamente trovato un nuovo varco. Domani (oggi) andiamo lì. Ecco perché dico ‘oggi’. Perché ho iniziato a scrivere il diario alle 22, poi l’ho interrotto e l’ho ripreso alle 2 del 20. Perché? Perché siamo stati tre ore su e giù in macchina sulla strada che va dalla Grecia alla Turchia a vedere di intercettare qualche gruppo di migranti che passava il confine la notte. Non ne abbiamo incontrati, ma di ritorno abbiamo dato un passaggio ad un ragazzo che più di una volta abbiamo rischiato di mettere sotto mentre faceva autostop. È bulgaro, ha 22 anni, Hristof, va a Solom per ‘rauta’, che a gesti capiamo significa ‘lavoro’, perché batte i pugni l’uno sull’altro e poi si asciuga la fronte. Cammina da 6 ore e deve fare ancora 500 chilometri. Hai sonno, devi riposare, chiede Andrea a gesti. Lui fa segno che non è importante. È di buon umore, gli diamo un po’ d’acqua. Fa vedere la sua carta d’identità bulgara ad Andrea. Come ti aspetti che sia un ragazzo di 22 anni che sta lasciando il suo paese d’origine per spaccarsi la schiena in un paese straniero? Sorridente. Perché è sicuro che per lui domani sarà un giorno migliore.
20 marzo 2011 – settimo giorno
Ore 19.30 in Italia. Giornata faticosa e piena di imprevisti. Oggi Julia e Vassilii di medici senza frontiere sono andati sulle montagne a camminare. Thanasis, il field coordinator di Msf di Orestiada ci accompagna a fare l’intervista al sindaco di Soufli che ci fa vedere il punto esatto da dove passano i migranti attraverso il fiume. L’intervista è ottima, c’è lui che con la mano indica ‘vedete, passano da qui e da qui e un muro non serve a a’. Poi Thanasis ci porta a filmare la centrale di polizia di Soufli, trasformata in detention center, dove sono ‘come sardine’, stretti, in piedi, e non possono neanche accovacciarsi perché non c’è posto. Sono stretti come ad un concerto affollato, tutto il giorno e la notte così, poi si accasciano l’uno sull’altro per dormire o fanno i turni. Disperazione. Stanno lì anche 6 mesi. Poi andiamo a filmare fuori dalla stazione di polizia di Tychero: nei vecchi ripostigli dei treni (era una train station), ci sono 300 persone, con lo stesso meccanismo: quello delle sardine. Si affacciamo dalle finestre strette e lunghe, come quelle delle fabbriche, messe in alto in alto alle pareti del muro. Le finestre sono alte al massimo 20 cm, hanno le grate e sono tutte oscurate con cartoni perché i migranti non parlino con i passanti. Perché dimenticavo di dire che questa ex stazione dei treni ovviamente è in mezzo ad una semplice strada di paese: tu passi da lì, parcheggi, alzi lo sguardo in alto, e vedi questo crimine verso l’umanità servito così, easy. I migranti cominciano a parlare, Andrea sfoggia uno splendido spagnolo (parlano il francese ma noi no). Vengono da tutto il nord Africa, Afghanistan, Medio Oriente. Stanno lì da tre mesi, hanno dai 20 ai 30 anni, sono tutti ragazzi, sono 300 in una stanza che sembra di 100 metriq, al massimo. Vista da fuori. Esce il poliziotto aggressivissimo, ci fa entrare, prende i documenti e ci toglie la cassetta. Ci dice che per riaverla domani dobbiamo fare domanda ad Alessandropouli, da dove dipende la Police station di Tychero. Non vogliono che il mondo sappia quello che accade, ma MSF sta facendo un ottimo lavoro lì, e molti rapporti sull’emergenza umanitaria in questi detention center e police station. Non ci resta che andare via. Torniamo ad Orestiada dove la mitica Alba, l’interprete messino-greca fa un giro di telefonate a certi suoi amici, amici a loro volta di poliziotti, per vedere di sbloccare la cosa. Ah, gli amici, che meraviglia. Poi andiamo a filmare il cimitero musulmano dove hanno sepolto i migranti morti sul confine, nel fiume. Una quarantina di mucchietti di terra, senza nome, senza la traccia del passaggio delle persone. I cimiteri musulmani sono così. Poi la micro moschea di questo micro paesino interamente islamico. Il capo della comunità non c’è. Forse Fabrizio Gatti non si è spinto fin qui… Andiamo via verso Orestiada per parlare con il capo della Hellenic police di là, che devo intervistare domani. Ma non c’è dobbiamo aspettare le 8 per parlargli e chiedergli di aiutarci a riavere la cassetta. Comunque chiamo il suo addetto stampa e gli chiedo di contattarlo per riferirgli che c’è quest’emergenza. Dice che lo farà. Non so se è vero. Domani vedremo. Vado sul sito dell’Ambasciata italiana ma tra i servizi non c’è il ‘recupero delle cassette sequestrate ai giornalisti’. Stanotte di nuovo su e giù per il ponte in cerca di migranti. Domani è primavera. Oggi sul pesco di fronte al cimitero islamico era fiorita una cascata di fiori. Lontano arrivava il belato di centinaia di pecore strette in un recinto, come un unico lamento.
21 marzo 2011 – ottavo giorno
21 marzo, ore 2.30 turche Sono ad Istanbul. L’albergo Londra hotel è un vecchissimo edificio in stile vittoriano in pieno centro. Me l’ha prenotato il mio stringer Michele (grazie!), con cui ho parlato sempre per telefono, da due mesi o via mail e che non ho mai visto. Domani ci incontreremo al porto per intervistare un trafficker con il certificato criminale: è stato detenuto in uno dei detention center in Evros e di lui hanno parlato anche i giornali. Lui sì che sa come vanno le cose…bah, vedremo. Poi andremo in uno dei detention centre di qui, dove lavora una ong che garantisce assistenza medica e sanitaria ai poveracci che sono intrappolati la dentro. Non so come sono le carceri turche, ma ho visto quelle greche, che teoricamente apparterrebbero ad un paese europeo. Credo che solo per il modo di trattare i migranti la Grecia meriti l’espulsione dalla Ue. Ma qua si sa, al massimo si beccano un’ammenda. Parto dalla cassetta che ci avevano sequestrato. La sera incazzatura e telefonate a tutti i numeri del mondo intero greco che avevo: il Ministro della civil protection e tutti i suoi ministeri, gli addetti stampa del Ministero, quelli dell’ufficio foreign correspondents, i vari capi della Hellenic police di Atene, Orestiada ed Alessandropoli. Potrei fare la cronista per un giornale locale tanti i contatti che ormai ho qui. Lascio messaggi molto incazzati in tutte le segreterie telefoniche di tutti i cellulari. Io per il giorno dopo (cioè il 21), ho tutti i permessi che dio comanda per fare quello che voglio. I miei permessi arrivano direttamente dal Ministero da cui dipendono tutte le police stations di qui. Ma non ce l’ho cartaceo, semplicemente mi hanno detto ‘vai, ché ha i permessi che hai chiesto’. IO ho chiesto un’infinità di cose, anche di entrare nei centri di detenzione, ma so già che non me li daranno e anche ho chiesto di filmare nella military zone e so già che non me lo daranno. Così so già che cosa dovrò filmare comunque, senza permesso. Perché so già che è così che farò, anyway. L’ufficio stampa della polizia mi dice di chiamare domattina per sapere che cosa come e con chi fare tutto. Mai io mi presento alle 8 della mattina, braccia a capasa (do you know ‘capasa’?) come dice Mario e chiedo che cosa fare per avere my tape e per avere tutti i permessi che il Ministero (via telefono) mi ha accordato. Il tipo prima è molto nervoso perché sono andata invece di chiamare e io lo rassicuro dicendo che per me è importante e perciò sono lì e bla bla. Alla fine mi dice che ieri sera lui (che l’avevo proprio stressato con la storia della cassetta), aveva chiamato il capo (che dovevo intervistare, ma che poi per un contrattempo non ho potuto farlo, ma chissenefrega) e lui aveva chiamato il capo dell’headquarter di Alessandropoli, che aveva chiamato il commander di Tychero, nella cui station era detenuta la mia cassetta, e ora bastava che io chiamassi il commander di lì dicendo che ho parlato con tizio e caio che ha parlato con questo e quello che mi ha detto di fare così e così, per avere my tape in my hands. Uau! Chiamo il tipo che dovevo chiamare e lui non finisce di scusarsi a nome di tutta la polizia greca (lui è il press officer) e dice che basta andare a Tychero e dire al commander questo e quello e se lui fa storie chiamo di nuovo lui che ci pensa lui a parlare col commander, a farmi dare la tape e a farmi filmare tutto. Amici, filmare tutto significa che sotto quelle finestre altre 60 cm (Msf mi ha scritto mail rettificando l’altezza che io avevo detto di 20), messe in alto in alto sul muro, ci siamo io e Andrea che parliamo con i 170 migranti compressi in 100mq. Andrea parla con loro in spagnolo e fa notare che la prima cosa che hanno detto, in una situazione come la loro, in cui potrebbero dire aiuto, ci maltrattano, non c’è cibo, ecc. è invece che c’è una puzza infernale, che l’aria è irrespirabile. La puzza di 170 persone in 100mq che non si lavano, non dormono, hanno solo una latrina e sono come sardine al concerto, si sente da giù, per strada. Non è possibile che in Europa esista una situazione del genere. E’ un crimine verso l’umanità, è un’emergenza sanitaria ma nessuno dichiara lo stato di emergenza. Zaffate violente di puzza umana arrivano a noi. Ma che fanno i cittadini di Tychero? Come è possibile che nessuno dica niente? Stanno lì, le finestre si affacciano per strada, tutti li vedono tutti lo sanno. I ragazzi sono giovani, dai 20 ai 30 anni e ci dicono grazie, grazie, mi chiamano ‘sister’ e io lo sono veramente, loro sorella. Il poliziotto ci blocca nn’atra vota perché non possiamo parlare con i migranti. Magie della burocrazia: possiamo filmare fuori dal detention center ma questo non significa che possiamo parlare con i migranti. Il discorso non fa una piega. Andrea filma e filma anche i poliziotti che ci bloccano e ci dicono che non si può filmare. Il girato è ottimo e l’allarme nel mondo è lanciato. Ci dicono i poliziotti che siamo i primi giornalisti in assoluto a filmare quella situazione. Chiamo Thanasis, il field coordinator di Msf che era con noi ieri quando ci hanno sequestrato la tape e gli chiedo che cosa altro c’è da filmare in questi fottuti detention center. Mi dice vai a Feres, perché c’è the same shit. Andiamo e ci troviamo di fronte ad una situazione assurda: tu sali le scale per entrare nella stazione di polizia e affianco alle scale, giù, nel cortile, vedi decine di migranti che vanno su e giù come criceti impazziti. Cioè che ne so, ti fanno una multa? Tu vai a protestare? Quando sali le scale guardi giù e vedi la scena. Il cortile dove sono i migranti, in alto ha un tetto di sbarre. Questa stazione di polizia adattata a detention center è stata fatta per 35 persone ma ce ne sono 130. Andrea (sempre più immenso!) filma tutto col mio iphone (a cui va un monumento) imboscato nella tasca: si vede tutto: il cortile, il tetto di sbarre, i migranti, donne e bambini e uomini, forse si sente anche il pianto di un bambino, che noi sentiamo dal vivo. Mi presento al commander e dico sono tizia e caia e ho dal ministero il permesso per girare. Yes but just outside. Yes of course. Andrea ha già filmato tutto con l’iphone, così tranquilli andiamo fuori a filmare l’importantissima recinzione per la quale an capu loru avrei chiesto il permesso e sarei venuta lunga dall’Italia. Poi di corsa ad Orestiada: il press officer di lì mi ha chiamato dicendo di correre che il giro con la patrol car è pronto. HO chiesto di andare al seguito della macchina della polizia to the border, per vedere che cosa fanno e soprattutto per vedere le zone che attraversano i migranti. Poi chiedo anche di andare nella restricted military zone, ma ovviamente è restricted. Oh che peccato, ci tenevo tanto… Infatti è vero, ed è per questo che il giorno prima eravamo andati accompagnati dagli amici della mitica Alba e avevamo già filmato tutto con l’iphone. Cmq faccio il giro con la patrol car: molto efficace perché finalmente andiamo proprio sui campi che ogni notte attraversano i migranti: una stretta striscia di terra di 1.5 km che li separa dalla salvezza e che a tutti i costi ogni notte cercano di conquistare. Buono veramente. Ok, siamo pronti per Istanbul Restituzione del rent a car e ricerca di un collegamento con la Turchia. Ovviamente sono pochi e mal serviti, come ricordavo. Così Taxi fino a Kipi, dogana, e taxi fino a Istanbul. Un frullato di colori, persone e profumi ci investe in un abbraccio dolce come la lingua turca. Banchi di pesce luccicante. Fanno capolino le sardine. Ma io non ne ho voglia. PS: Mi ha scritto Gatti’ IO gli avevo scritto ieri una mail con oggetto ‘Il Fantasma di Gatti ad Evros’ e lui mi ha risposto. Ecco il nostro scambio di battute: MARILU’: Salve, Sono una collega free lance. Sono finalista vincitrice all’Ilaria Alpi award per la sezione ‘best international organised crime report award’. Sono a Evros a girare il documentario finanziato dall’Ilaria alpi award ma soprattutto da me stessa. E in ogni bar, trovo qualcuno che dice ‘ah, giornalista italiana…c’è stato un altro..’ e io ‘Gatti’?, ‘si’, e io ‘maporcalamiseria’… sono ancora qui, domani vado in Turchia. Sto seguendo il viaggio dei migranti dall’Afghanistan all’Italia, via Turchia e Grecia. Tengo un diario on line, dove racconto anche di te. Eccolo, se ti va. Ciao E GATTI MI HA RISPOSTO: Cara Marilù, grazie per avermi scritto. Complimenti per il premio e il lavoro che stai facendo. Arriverai in Afghanistan risalendo la rotta? Se sono ancora lì, contatta a Soufli Msf, sono molto bravi e possono darti molte informazioni. Spero non ci siano ancora dieci gradi sotto zero. Un abbraccio e in bocca al lupo Fab
22 marzo 2011 – nono giorno
22 marzo ore 9.05 italiane. Fra mezz’ora arriva in albergo Michele, lo stringer che qui mi ha tenuto i contatti con varie situazioni, dalla polizia al prefetto, dai trafficanti ai volontari delle Ong che aiutano i migranti detenuti nelle prigioni. In ascensore incontriamo una ragazza di 20 anni minuta e dal viso indiano che si illumina quando ci sente parlare in italiano: ah anch’io sono in Italia a Roma per studiare la lingua. Di dove sei? Massachusset (si scrive così? Sto scrivendo nella breakfast hall dell’albergo che è al piano interrato e non riesco a connettermi!). E’ qui per vacanza, 4 giorni, ed è veramente felice di parlare con degli italiani, ha l’espressione di chi ha incontrato dei connazionali in paese straniero. My home is wherever my heart is. Il tassista di ieri notte che ci ha portato dalla dogana ad Istanbul era una montagna umana e fumava senza chiedere il permesso. Ovviamente. In due ore e 15 di percorso ha fumato 8 sigarette, apriva il finestrino, entrava l’aria gelida, e io stamattina ho mal di gola e l’herpes. Mannaggialamiseria. Inoltre, questi 280 euro non previsti per il passaggio dalla Grecia alla Turchia ci hanno messo in ginocchio: il budget in contanti è quasi finito e questo mi mette l’ansia, perché ci sono sempre gli inconvenienti. Tipo che la macchinetta delle carte di credito non legge la carta perché non c’è la linea. E infatti è successo, ho dovuto pagare in contanti e adesso abbiamo i soldi contati per arrivare all’aeroporto domattina. Ho giusto i soldi per prendere l’occhio di dio per tutti miei bambini, ché porta fortuna. Ore 22 turche. Stamattina intervista allo scafista col certificato criminale, cioè oltre due anni di carceri greche. Ammetto che avere di fronte un ex scafista che ti dice chiedimi quello che vuoi, un piccolo giramento di testa te lo dà. Pensi, aspè, da dove comincio? La regola è iniziare dall’inizio e così ho fatto. Tutto ma proprio tutto, retroscena e dolori, raccontati seduti sugli scogli del porto di Istanbul da dove è partita la sua nave per portare i migranti verso l’Italia. Alla fine, una vittima anche lui delle organizzazioni criminali perché l’hanno preso per fame, sapevano che la sua azienda stava fallendo e gli hanno offerto 10mila dollari per fare il capitano. Lui l’ha fatto, l’hanno arrestato, si è fatto il carcere e non ha neanche preso una lira dall’organizzazione, perché nel frattempo erano spariti. Poi facciamo ‘appoggi’ a palate e in questi momenti è ad Andrea che gira la testa. Istanbul ti toglie il fiato. Guardi il ponte che collega il continente europeo con l’Asia e rimani pietrificato. T’mmagini tzunami di persone e di civiltà che nei millenni sono passati da lì. Poi giriamo l’intervista a due presidenti di due differenti Ong che non prendono soldi dal governo e che per questo sono libere di dire quello che pensano. E pensano che l’Europa sta comunicando alla Turchia qual è il vero prezzo per entrare nella Ue: la Turchia deve essere il tappo che impedisce ai migranti di arrivare in Europa. Lavorano da anni per la tutela dei migranti ma nessuno di loro è mai riuscito ad entrare nelle carceri turche, che noi abbiamo prima filmato da fuori, poi abbiamo chiesto il permesso e ovviamente ci hanno detto di no. Le Ong hanno chiesto e chiesto di entrare, ma mai hanno ottenuto l’autorizzazione. Sanno che la situazione sanitaria è da crimine verso l’umanità, e lo dicono guardando in camera, e sperano che la missione di Medici senza frontiere che inizierà tra poco, a cui stanno collaborando, spingerà il Governo a dare il permesso perché almeno i Msf entrino lì. Ripercorriamo le tracce dei trafficanti, andiamo ad Aksaray, il quartiere di Istanbul dove sappiamo che vengono condotti i migranti per incontrare la futura staffetta che li porti poi in Grecia; andiamo nel quartiere degradato di Kumkapi, abitato per il 99% da clandestini in attesa di incontrare i trafficanti che li portino in Europa o da persone in attesa di asilo politico. Per avere l’asilo politico devono aspettare anni e vivono così in questo limbo, privati dei diritti e della dignità. Michele è veramente eccezionale, lui, sardo che non vuole tornare in Italia. ‘Si sta meglio qui, soprattutto ora’. ‘Mi fanno vergognare di essere italiano’. Ha un contratto con una grossa azienda statale italiana, che ha esportato il made in Italy anche qui: Michele è precario e non ha alcuna speranza di avere un contratto stabile. Quando dici che gli italiani si riconoscono all’estero… Sono in camera a riposare prima di uscire per fare qualche altra ripresa by night e comprare gli occhi di Dio. Penso già alle interviste che mi rimangono da fare in Italia: il capo della Finanza provinciale di Lecce, Vezzoli; il capo del dipartimento per immigrazione della Questura, Gargano; la ragazza nigeriana vittima della tratta costretta a prostituirsi; il ragazzo indiano anche lui vittima della tratta (entrambi testimoni di giustizia e quindi sotto tutela, vivono in anonimato in case protette); il giro di notte con le motovedette della Finanza che intercettano le barche degli scafisti. Poi mancano l’intervista al capo dell’Europol che sta all’Aia, Harvey, e al portavoce del Frontex, che sta pure lui in Olanda. Poi ho finito e inizia la post produzione. Con Andrea è già aperto il confronto, penso che sarà un bel momento creativo, nasceranno nuove collaborazioni con altre persone/amici che a palate di generosità si sono dati a questo progetto, sposandone lo spirito e la passione. Di tutto questo, qui da Istanbul, dico grazie ad Ilaria.
26 marzo, ore 11 Tappa a casa
Eccomi qui a scrivere come sempre guardando i miei alberi d’aranci. Sono guariti da questa brutta malattia che rende le foglie nere, ma si devono ancora riprendere del tutto. Ho dormito quasi 24 ore di seguito. Tornare in Italia non è stato piacevole (escludendo le felicità di rivedere Mario e i bambini, ovviamente). Andrea ha cambiato il suo ‘stato’ in Mr. Hyde. E ha ragione: i bagagli tardano mezz’ora e ci fanno cambiare tre rulli. Però sul primo rullo indicato dal tabellone, scorre un solo bagaglio. Un cliente incazzato mesi fa aveva voluto vederci chiaro su questo strano fenomeno e, ricorda Andrea, aveva verificato che era un modo escogitato dalle compagnie aeree o dalla gestione dell’aeroporto di Fiumicino, per tenere la media degli standard qualitativi imposti. Siccome non riuscivano ad avere performance alte, facevano girare e girare una sola valigia farlocca piena di carta, perché risultasse che cmq i bagagli erano stati restituiti nei tempi prestabiliti sul nastro prestabilito. Poi col passaparola comunicavano il cambio del numero del nastro per la restituzione dei veri bagagli. E il ritardo veniva occultato. A noi è successo proprio questo. Né ad Atene, né ad Alessandropoli, né ad Istanbul abbiamo visto a del genere. Poi i padroncini dei minibus privati che da Fiumicino ti portano a Termini: ti danno informazioni sbagliate (noooo, il treno per Termini parte fra mezz’ora e fa un sacco di fermate, il minibus invece…) e ti spingono a comprare il biglietto. Lo stesso accade alla biglietteria quando dobbiamo prendere i biglietti del treno per Termini: il tipo cerca di convincerci a prendere il minibus, perché il treno ha già chiuso le porte. Ovviamente non è vero, Andrea è sempre più Hyde e sempre meno Andrea. Cmq si prende il treno e all’arrivo abbiamo solo 6 minuti per correre da una parte all’altra della stazione per saltare sul treno per Lecce. Secondo me ce la facciamo e corriamo. Ma nel bel mezzo della corsa un’inspiegabile debolezza alle gambe rende il trolley pesantissimo. Tiro e tiro ma diventa difficilissimo. La stanchezza ha il sopravvento. Le porte si chiudono davanti e il treno è perso. Mi cade l’occhio sul trolley e bastardo! Non era la stanchezza delle gambe (per quanto infinita), ma la rotella del trolley, saltata. Trascinandolo ho consumato tutto un angolo della tela del borsone traditore. Ora bisogna cambiare la prenotazione dei biglietti, fatta on line. Ma dovevamo farlo entro un’ora (e dov’era scritto?) quindi dobbiamo pagare una sovrattassa per fare il cambio di treno. Alla fine siamo su. Nel bagno della nostra carrozza manca l’acqua, ma me ne accorgo dopo aver spruzzato il sapone sulle mani. Asciugo via il sapone con la carta igienica (mancano gli asciugamani di carta) e me ne torno al posto incazzata. Però sul ‘freccia argento’ c’è un nuovo servizio: un inserviente che va su e giù per le carrozze per pulire i bagni. Lo annuncia trionfante l’altoparlante (scassato e gracchiante). Ma non ci svela come fa a pulire senza acqua (per cui temo che a sto giro il suo compito sarà solo fare ammuina: su e giù per le carrozze per far vedere che sta pulendo). All’arrivo profumo di fresie e felicità. La luce del Salento è sovrannaturale e i colori e i palazzi sono bellissimi. La natura mi fa l’occhiolino e mi da il bentornato. Dalla televisione locale un innaturale martellamento sulla salentinità, sull’identità salentina che viene fatta coincidere in malafede con la promozione dei prodotti salentini verso i salentini. Come dire: consumo salentino quindi sono salentino. Praticamente un’apologia dell’autarchia di stampo fascista e xenofobo. Nulla a che vedere con ragionamenti del tipo ‘kilometro zero e basso impatto ambientale’. Dopo il meltin’pot di culture e storie in cui mi sono immersa e che mi hanno accolto, chiamandomi ‘sorella’, questa realtà artefatta ad hoc mi risulta ancor più indigesta. Come è possibile che i salentini non se ne rendano conto? Come è possibile che qui qualcuno stia lavorando per costruire un muro, pro domo sua, per difendere il suo mercato e crearsi una dignità politica e che i salentini siano disposti a subirlo? Do uno sguardo veloce alle mail con l’iphone per vedere se ci sono urgenze: si, Thanasis mi ha perso di vista ed è preoccupato (mi aveva lasciato in Turchia) gli dico che è tutto ok e gli chiedo il permesso di pubblicare una sua riflessione sul mio diario. Poi il Ministero greco che chiede cortesemente un resoconto delle interviste e delle autorizzazioni a girare fuori dalla carceri: rispondo che non sono soddisfatta del tutto perché mi hanno sequestrato la cassetta, sebbene dopo si siano scusati, e che il capo della polizia di Orestiada non mi ha dato l’intervista, sebbene fissata nel giorno e nell’ora già dall’Italia. Non mi rispondono.
ECCO LA RIFLESSIONE DI THANASIS SULL’EMERGENZA SANITARIA NEI CENTRI DI DETENZIONE PER I MIGRANTI IN GRECIA
Dear Marilou,
I was reading your diary and felt the need to point out some issues to you, not as an MSF member but mostly as an individual and independent person, feeling the need to defend a bit Greece, but more than that the Human Rights of the migrants. During the short time that I am here, I had around 30 interviews to journalists from all over Europe (even from Korea) and to all of them I said what is happening here, in the detention centers, because what is happening is inhuman and violates Human Rights and it is against my principles and my organization’s principles to stay silent. I feel that this matter should go public and because of that, pressure to be exerted on the key persons of the governments, in order to make a change for the benefit of the migrants. But… migrants (detained or not), are in this difficult position, because Europe does not apply the Human Rights to them. If hundreds keep coming every day, Greece cannot provide them the necessary help and support, according the Human Rights. Europe knows what is happening here, but if you ask for example how many enter Norway per year, you will realize that this number enters Greece in a few days. Because of Dublin II agreement (which has to be canceled right away), they are blocked in Greece , while their goal is to go to the rest of Europe. It is easy to blame Greece for all these violations of Human Rights, but why Europe did Dublin II? Because, they do not want them in their countries. Greece is not giving asylum practically, if you check the numbers, you will find that, it is just a very small percentage of asylums given, compared with the ones asked. Actually, the whole Europe is not giving asylum. They know what is happening here and what is going to happen to the migrants, when they are forced to stay here. What the other European countries will do, if I take 100 migrants and knock the door of a European country’s Embassy, here in Greece and ask them to accept them and protect their Human Rights, that outside are violated, they will do it?. No, for sure and if they do it once (just for public relations), they will not do it, if I will bring them 100 more in a few days. But the embassy knows, that if they let them out, they are exposed in inhuman conditions and a miserable life. Europe is in a difficult position. They institute the Humanitarian Law (thinking I guess that people from third countries will always stay there and that they will never come here), but now they have to imply it. It is nice to go in the poor countries, with the hundreds of NGO’s, helping the people that suffer (…and doing some business around humanitarian aid) and also have all these people seeing you as a saver, kissing your hand to express their thanks… these poor beings… that we “the good, wealthy ones” help so “generously”. But from the other side our companies are on their ground, taking all their wealth, supporting their wars, trying to find goods in cheap prices… for us… for the big consumers of West, taking everything but giving nothing back to them and leaving them in their misery. Human Rights were made only for the western world, not for them… they are very far away from us, to apply the Human Rights… “live and let them die”… build fences, walls… keep them out with any possible way… do not let them come… or they will decrease our living status… they will take our jobs… they will infect us with fatal diseases… and finally, maybe they will become like us…! Nowadays, in Europe, we face a unique phenomenon, these people fed up from insecurity and misery, come to us, overcoming lots of restrictions, threats and dangers, risking their lives, asking their right to the same idiot lives like ours… and they mix with us… our lives… our cultures… our families! What are we going to do? Shall we apply the Human Rights (that we created) to them also or the big true will be uncovered… that, Human Rights are not for everyone! I am really curious to see what is going to happen finally and what the reaction of our “civilized” world will be and waiting to see that, I do my best working for their support and their benefit. I hope that you can understand my message (in these awful English that I write) and the meanings between my words.
Many kisses and Thanks in advance
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