UNA SOCIETÀ FONDATA SULLA CONOSCENZA O SULLE “CONOSCENZE”?

Manca il lavoro o sono solo le “raccomandazioni” ad essere insufficienti? Quale futuro per l’Italia in assenza di una cultura del lavoro fondata sul merito.

All’inizio del nuovo millennio, di fronte alle sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, i Leader politici dell’Unione Europea riuniti a Lisbona, lanciarono l’obiettivo di fare dell’Unione “l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Era il marzo del 2000. Da allora l’Europa ha intrapreso iniziative, progetti e messo a disposizione milioni di euro per finanziare programmi atti a sostenere il percorso verso la società della conoscenza. Una società che fonda la propria competitività sul riconoscimento del valore del capitale umano e i cui motori principali sono la formazione, l’innovazione e la ricerca. Oggi a 10 anni da quello storica decisione, possiamo dire che l’Europa sia riuscita a conseguire il suo intento? E l’Italia può dirsi una società fondata sulla conoscenza o sulle “conoscenze”? Non vi è dubbio che grazie al Fondo Sociale Europeo, lo strumento finanziario dedicato alla promozione dell’occupazione, le possibilità di istruzione e di formazione si siano moltiplicate dando accesso soprattutto ai soggetti più deboli: donne, disoccupati, immigrati, disabili, cassa integrati e lavoratori in mobilità. Ma aver esteso la formazione, moltiplicato corsi, master, attività di orientamento e aggiornamento professionale, ha reso complessivamente più alto il livello delle persone inserite nel mondo del lavoro? Sono state effettivamente create le premesse per quelle pari opportunità che sono il giusto preludio per la mobilità sociale su cui si fonda una democrazia? La questione è abbastanza complessa e intendiamo affrontarla senza cadere in un facile qualunquismo. Indubbiamente il FSE è stato uno strumento fondamentale che ha offerto opportunità di formazione e qualificazione professionale a milioni di Europei. La programmazione 2007-2013 ne ha confermato il ruolo strategico stanziando oltre 77 miliardi di Euro (circa il 10% del budget totale dell’UE) a sostegno di progetti che spaziano dalla formazione al miglioramento dell’accesso al mercato del lavoro, dalla lotta alle discriminazioni al potenziamento dei servizi pubblici. Diciamo quindi che le opportunità di formazione e qualificazione professionale non mancano, ciò che manca, almeno in Italia, è una cultura del lavoro diffusa che sappia mettere al centro il “merito”. La preparazione professionale infatti, pur rimanendo una condizione necessaria non appare di per sé sufficiente a garantire l’accesso al mondo del lavoro. La rete di relazioni, la segnalazione e la cooptazione sono ancora i capisaldi su si muove il sistema di accesso al mondo del lavoro e ciò indistintamente nel settore pubblico come in quello privato. Seppure la pratica delle segnalazioni sia diffusa in molti Paesi, in Italia questa assume un diverso significato. Mentre in società come quelle americane o scandinave, la referenza impegna la reputazione di chi la fa, in Italia tale pratica diventa spesso sinonimo di raccomandazione, ossia la richiesta di un favore personale, indipendente dalle “capacità” del soggetto segnalato. Il malcostume della raccomandazione non produce solo inefficienze e sprechi (si calcola che il “non merito” costi all’Italia tra il 3 e il 7,5% del PIL) ma crea una società rigida, conflittuale, dove la mobilità sociale è bloccata da una classe dirigente che amministra il proprio potere come un feudo. In assenza di nette inversioni di tendenza, di una rivoluzione copernicana del pensiero, il nostro Paese si candida ad un progressivo depauperamento dei “talenti” e ad assistere impotente al fenomeno della “fuga dei cervelli”. Sono quasi 30.000 i ricercatori italiani costretti ogni anno ad emigrare all’estero per veder riconosciuti e ricompensati adeguatamente i propri sforzi. E che dire poi di quella barriera invisibile, definita con la metafora del “soffitto di cristallo”, che impedisce alle donne di progredire nella carriera e di raggiungere le posizioni apicali? Non sono poche le questioni aperte e gli squilibri creati da una società schizofrenica che predica l’uguaglianza del sapere e pratica l’ineguaglianza della “relazione”. In questa sorta di feudalesimo del terzo millennio, in cui le eccellenze sono più temute che premiate, mi domando se non sia proprio la classe dirigente ad aver più bisogno di essere educata!

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