E’ ripreso ieri, nell’aula del Tribunale per i minorenni di Lecce, il giudizio immediato nei confronti di Vittorio Luigi Colitti, il 19enne (minorenne all’epoca dei fatti) accusato, in concorso con il nonno Vittorio, dell’omicidio di Peppino Basile, il consigliere dell’Italia dei Valori assassinato ad Ugento la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008. Dinanzi ai giudici è comparso don Stefano Rocca, parroco della Parrocchia San Giovanni Bosco ad Ugento e padre spirituale della piccola comunità del basso Salento da circa 11 anni. Da quella tragica notte di metà giugno di due anni fa, il sacerdote originario di Taurisano, 40enne, ha sempre invitato gli ugentini a rompere il muro di omertà, a non aver paura, a parlare. Un concetto ribadito anche in aula, incalzato dalle domande del pubblico ministero Simona Filoni. Don Stefano ha raccontato come spesso, nelle sue omelie, abbia invitato i suoi parrocchiani a collaborare con la magistratura, rivolgendosi in particolare ai vicini di casa di Basile. Ed è per questo che nel dicembre del 2008 il sacerdote si è recato a casa dei Colitti, per invitarli a raccontare tutto ciò che sapevano, anche per evitare eventuali ritorsioni da parte degli assassini. “Noi non sappiano a – avrebbero risposto i vicini della casa della vittima – altrimenti avremmo già raccontato tutto alle forze dell’ordine”. Le esternazioni e la ricerca della verità sulla morte di Basile sono costate a don Stefano accuse tanto infamanti quanto false. Nella deposizione del parroco è emerso come in passato sia stato descritto, sempre da fonti anonime, addirittura come spacciatore. Vi sono state poi, in questi lunghi mesi di passione, anche delle minacce: è Il 17 settembre del 2008, quando, facendo seguito ad alcune lettere minatorie, una telefonata anonima giunge al 113, minacciando di morte il sacerdote con poche parole pronunciate in dialetto: “Stasira ‘ccitimu don Stefano quiddhu ca cunta mutu”. Minacce seguite spesso agli appelli perché fosse fatta luce sull’omicidio Basile. Le minacce sarebbero però cessate subito dopo l’arresto del Colitti, per poi riprendere il 27 febbraio scorso, il giorno dopo la lunga deposizione presso la Procura minorile, in cui gli fu recapitato un plico con esplicite accuse di pedofilia. “Come pastore di questa comunità ho sempre ritenuto che bisogna collaborare con la magistratura e nel chiedere che si faccia verità e giustizia. Penso di aver pagato in prima persona, con accuse e minacce, questa mia ricerca della verità, e continuo a chiedermi il perché. Certo la nostra comunità è stata rivoltata come un calzino ma credo che tutto ciò fosse necessario”. Il parroco di Ugento ha poi raccontato di aver subito pressioni e attacchi dal sindaco e da persone a lui vicine. In particolare di essere stato apostrofato come “prete comunista” e di essere stato accusato più volte di interessarsi di cose che non gli competevano, dovendo invece limitarsi a fare il sacerdote. Minacce ricevute, a suo dire, anche da tale Cristiano Cera, che dopo averlo affiancato in piazza, gli avrebbe detto in tono minaccioso: “Smetti di guardare i film gialli, pensa agli affari tuoi”. Singolare poi, ha proseguito don Stefano, il fatto che dopo l’arresto dei Colitti, l’entourage del sindaco di Ugento abbia festeggiato e inviato fiori alla piccola presunta testimone oculare del delitto. In particolare il nipote del sindaco gli avrebbe detto: “Hai spicciatu mò”! Don Stefano ha poi ripercorso l’impegno politico del suo amico Basile, quasi rabbioso con gli amministratori pubblici. “Peppino – ha raccontato don Stefano – voleva sempre mostrarsi un leone, non si tirava mai indietro. Arrivò addirittura a far affiggere dei manifesti con la scritta “solo il piombo mi fermerà”. In aula è comparso anche il signor Fernando Marini, il nonno della piccola super teste dell’accusa. Una deposizione la sua, caratterizzata (come quasi tutti i vicini di casa dell’ex consigliere Idv) da un atteggiamento ostile se non addirittura reticente, contraddistinto da toni e parole a dir poco aggressive nei confronti dell’accusa (colpevole ad esempio di porre domande stupide), tanto da costringere più volte il presidente a richiamare il teste. Marini ha detto di non aver sentito a in quella tragica notte, di essersi “assonnolito” sul divano e poi di essere andato a letto, senza ricordare l’orario. Una versione contrastante con quanto dichiarato pochi giorni dopo l’omicidio, in cui affermò di essere andato a letto alle 11.30. Sarebbe stata la moglie a svegliarlo alle 3.30, senza spiegargli cosa fosse successo. L’uomo ha riferito di aver saputo da qualcuno che avevano ammazzato Basile. Una versione diversa da tutte le altre ascoltate sin qui, che hanno sempre sottolineato come Marini fosse uscito di casa solo alle 4.15, senza rivolgere la parola a nessuno e limitandosi a fumare una sigaretta. Orari e situazioni comunque poco chiari, avvolti da una cortina di profonda dimenticanza. L’uomo ha poi confermato che fra sua moglie e sua figlia (la mamma della piccola testimone oculare del delitto) i rapporti si sono incrinati proprio dopo le dichiarazioni della bimba. Dichiarazioni secondo lui senza alcun fondamento, anche perché la nipotina non sarebbe mai riuscita a sporgersi dalla finestra di casa. Un processo sempre più complesso e pieno di contraddizioni, in cui la realtà finisce per trasformarsi nel grottesco, quasi non si trattasse di cercare la verità su di un omicidio tanto brutale quanto reale e in cui ad essere in gioco non sono i personaggi di una commedia dell’arte ma la la vita e il futuro di un ventenne. L’udienza è stata aggiornata ad oggi: saranno chiamati a deporre la psicologa Michela Francia, in relazione alla testimonianza della bimba, e l’ispettore Fersini della Squadra Mobile, uno degli investigatori che hanno condotto le indagini.
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