Clara Collarile, “mamma” dei centri antiviolenza in Italia: “Attenzione a non tornare indietro”

L’INTERVISTA. Pari opportunità e violenza: ne abbiamo parlato con la prima delegata italiana alle Pari opportunità a Bruxelles.

Di Francesca Rizzo

Clara Collarile è una delle donne italiane più attive, negli ultimi decenni, nel promuovere anche a livello comunitario le pari opportunità tra uomini e donne.

Prima rappresentante italiana presso il neonato Dipartimento per le Pari Opportunità di Bruxelles, nel 1985, ha coordinato numerosi progetti europei per il sostegno dell’occupazione femminile e della cultura della parità.

Ieri sera è stata ospite del Centro antiviolenza “Renata Fonte” di Diso, e non per caso: attraverso il progetto “La rete antiviolenza tra le città Urban d’Italia”, ancora oggi una pietra miliare a livello  europeo, Collarile ha contribuito a delineare nel 1997 il quadro reale italiano in tema di violenze domestiche: un problema fino ad allora sottovalutato, che ha portato all’istituzione dei primi centri antiviolenza.

 

// L’INTERVISTA Dottoressa Collarile, a Lei e al Suo gruppo di lavoro, attraverso il progetto Urban, si deve la nascita dei centri antiviolenza in Italia. Come si è sviluppato questo percorso?

Urban è nato come risanamento di aree urbane in crisi, soprattutto con problemi sociali: aree degradate, con un alto tasso di abbandono scolastico, di disoccupazione, problemi di droga. Poi nel 1997 venne fuori l’idea di studiare anche il problema della violenza domestica, e ci fu il primo stanziamento di ricerca generalizzata nelle città Urban. Per la prima volta in un Paese europeo facemmo un questionario sulla violenza domestica; emersero così le realtà vere di un gran numero di città italiane: numeri reali, non sondaggi su un campione di poche donne come facevano negli altri Paesi. Venne fuori la verità, che le donne non avevano neanche la percezione della violenza, non la consideravano tale perché esercitata dal marito.

Si è passati così ad una percezione diversa, ed è stato tutto catalogato, pubblicizzato. Per ogni città venne fuori un libro, con i risultati dei questionari e le relative riflessioni degli esperti. Questo tipo di ricerca, unico a livello europeo, è diventato il modello per tutti gli Stati membri, parte del materiale è stata anche tradotta in francese e in inglese.

I primi centri antiviolenza nascono perché nasce l’idea, che prima mancava, di creare un luogo a cui le vittime possano rivolgersi.

Ieri a Diso è stato inaugurato il Centro antiviolenza “Renata Fonte”. Il Suo nome però è legato alla nascita, ormai vent’anni fa, dell’omonimo centro di Lecce. Com’è andata?

All’epoca, nel 1998, Lecce aveva una sindaca impegnata, Adriana Poli Bortone, che volle fortemente la costituzione del centro, e che per fare una gara di affidamento del Centro molto trasparente, chiese la mia presenza come Presidente della commissione di gara.

L’edificio in cui ora c’è il centro Renata Fonte di Lecce fu ristrutturato con i fondi Urban: ero molto contenta di veder fiorire quell’edificio che ha una storia complessa, e che oggi è un punto di riferimento sul territorio.

Pari opportunità in Italia: a che punto siamo? Quanto è progredita la cultura della parità uomo-donna negli anni?

Siamo al punto che bisogna non tornare indietro. Non disfare il lavoro che è stato cominciato tanti anni fa, e che non è scontato. È costato fatica, lavoro.

In Italia abbiamo le pari opportunità nel lavoro dal 1919, grazie a un’ottima legge che aveva un’unica discriminante: le donne ebbero accesso a tutto il pubblico impiego, ma non con mansioni dirigenziali. Questo limite c’è stato per diversi anni, finché una giovane donna, Rosa Oliva, negli anni Sessanta fece un ricorso sulla base dell’articolo 37 della Costituzione, che prevede la parità; La causa fu vinta e fu fatta una bellissima legge, di due soli articoli, che ha abolito quanto prescritto dalla legge del 1919, fatta eccezione per l’accesso alla carriera nelle forze armate.

E se noi abbiamo la parità in Costituzione, lo dobbiamo alle donne, alle poche donne che erano alla Costituente, soprattutto alla grande senatrice Angelina Merlin; loro, le donne, vollero che fosse specificata la dizione “parità di sesso”, mentre gli uomini lo ritenevano superfluo. Questa dizione diventerà l’arma a favore dei ricorsi per l’attuazione vera della parità.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino non parlava di parità  uomo-donna: il risultato fu che la donna che scrisse poi la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, Olympe de Gouges, fu ghigliottinata. Le donne della Costituente italiana, consce del problema, vollero che fosse ben chiarito.

 

Qual è il ruolo delle politiche comunitarie rispetto alla promozione delle pari opportunità negli Stati membri?

Agire a livello europeo significa avere una ricaduta su ogni Stato membro. Una raccomandazione ha già un peso, ma se si riesce a fare una direttiva (come quella sul congedo parentale, o quella sull’aspettativa dopo la maternità), la direttiva diventa legge negli Stati membri. Parte tutto dal 1957, con il Trattato di Roma che sancisce la parità salariale. L’articolo 119 del Trattato fu voluto soprattutto dai Francesi, per evitare la concorrenza sleale data, all’interno dell’Unione, dal fatto che gli Italiani pagassero meno le donne.

La vera svolta a Bruxelles è avvenuta però nel 1985, quando si è costituito il Comitato per le Pari Opportunità, per affrontare tutte le questioni, anche a supporto della famiglia, perché la donna potesse lavorare. Agli Stati membri fu chiesto di nominare un rappresentante per quel Comitato, ma in Italia non esisteva ancora un comitato per le Pari Opportunità. La prima rappresentante italiana a Bruxelles nel Comitato per le Pari Opportunità, nel 1985, fui io.

 

Cosa possono e devono fare i media per promuovere le pari opportunità, alla luce del loro ruolo nella società?

Il cambiamento comincia dal linguaggio, e il ruolo dei media è cruciale per l’uso del linguaggio: finché i giornali continueranno a scrivere “il ministro”, “il sindaco” e così via, non aiutano. L’informazione dev’essere fatta bene, dev’essere corretta, e non sempre è così.

 

È favorevole o contraria alle “quote rosa”? Perché?

Le quote rosa sono indispensabili, almeno finché non si cambia mentalità. Finché non c’è stato l’obbligo di fare le liste elettorali in un certo modo, le donne in Parlamento praticamente non c’erano. Eravamo la ruota di scorta, al più basso livello. Il governo italiano in carica ha due o tre ministre, quello spagnolo ha metà squadra composta da donne. Ma non è solo questione di quote, torniamo al linguaggio: una ministra spagnola, se la chiami “ministro” si arrabbia. In Italia avviene il contrario.

Non è detto che gli uomini al potere siano migliori delle donne; e comunque, come disse una grande donna alla Costituente, “le donne al potere non potranno fare più danni di quelli che hanno fatto fino ad oggi gli uomini”.

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